“La scena del pozzo di Giacobbe è una delle più umane e più belle del quarto vangelo. Per la ricchezza dei suoi richiami biblici, per la poesia della sua cornice, – poesia degli incontri vicino al pozzo, poesia delle sorgenti miracolose, delle acque zampillanti, delle messi biondeggianti – per la delicatezza e la profondità del dialogo tra Gesù e questa donna, fino a questo momento una sconosciuta e tra poco una credente, per l’ampiezza infine delle prospettive religiose che apre sulla missione della Chiesa e sulla adorazione del Padre nello Spirito e nella verità, questa pagina di San Giovanni lascia in tutti quelli che l’hanno letta e meditata una impressione indimenticabile” (De la Potterie).
Tanti temi che si intrecciano nel suggestivo racconto della samaritana al pozzo di Sicàr. Come al solito, per l’economia del nostro breve spazio, ne scegliamo uno, quello della sequenza di “titoli”cristologici che indicano il percorso attraverso il quale la samaritana giunge alla fede in Cristo Gesù. Giovanni infatti non mette a caso nel testo i nomi con i quali viene chiamato Gesù. Seguendo De la Potterie, troviamo che Gesù all’inizio del racconto è un viandante qualsiasi, uno sconosciuto. Anzi, è un giudeo, e quindi un nemico dei samaritani. Nonostante le ostilità che dividono i due popoli, Gesù però attraversa la Samaria, e non per una necessità di tipo geografico. Brown nota che “sebbene la strada principale dalla Giudea alla Galilea passasse attraverso la Samaria, se Gesù era nella valle del Giordano (Gv 3,22), avrebbe potuto facilmente andare a nord attraverso la valle e risalire in Galilea attraverso il passo di Beisan, evitando la Samaria”. Giovanni però usa in 4,4 un verbo (“doveva attraversare la Samaria”) che nel Nuovo Testamento indica una necessità, un volere o disegno di Dio. Si veda, per tutti, l’esempio di Lc 24,4: “Non bisognava che il Cristo sopportasse (= non doveva il Cristo sopportare) queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”.
La strada che Gesù compie porta sempre ad un incontro: questa volta, su quella strada doveva trovarsi la donna samaritana. La samaritana capisce dalle prime battute del dialogo che Gesù è un profeta, perché egli le ha rivelato il mistero della sua vita più intima, privata: “Gli replicò la donna: Signore, vedo che tu sei un profeta” (4,19). Ma non finisce qui il percorso di scoperta dell’identità di Gesù: alla fine, quando ormai il dialogo è entrato nella questione importante dell’adorazione di Dio, la donna giunge a credere che questi è il Messia. Manca ancora qualcosa, però: alla chiusura del brano, in 4,41-42, saranno infatti i samaritani stessi a dare l’ultimo titolo a Gesù, quello di salvatore: “Molti di più credettero per la sua parola e dicevano alla donna: Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”. “Messia e Figlio di Dio sono i due appellativi fondamentali del credo giovanneo (cfr. Gv 20,31). Il titolo Salvatore del mondo, si può dire, ne costituisce la sintesi: colui che è venuto come la luce del mondo, come rivelatore e come Messia, è il Figlio Unigenito che Dio ha mandato a salvare il mondo e far sì che ogni uomo possieda la vita eterna” (De la Potterie).
Il cammino che il brano del vangelo della samaritana fa compiere al lettore dice come sia possibile giungere alla fede. Anzitutto Dio si avvicina all’uomo: attraversa la sua strada, anche quella che pare la più strana, come quella che Gesù ha scelto di percorrere. A Gesù che passa e si ferma, assetato, non fa impressione il parlare con una donna, per giunta samaritana, per giunta in stato di irregolarità rispetto alla Legge. Anzi, proprio questi ‘ i peccatori ‘ egli è venuto a cercare, e non i sani: e per questo chiede a quella donna da bere. E ora Gesù potrà mostrarsi come salvatore. Non in senso astratto, però, ma arrivando sul campo delicato e coinvolgente degli affetti. Così “funziona”, mi pare, il dono della fede da parte di Dio: mai in modo teorico, staccato dalla terra o dalla vita. Perché ciò accada, Gesù deve mettere il dito sulla piaga della donna. Ma non con moralismi (che pure sarebbero stati facilissimi da porre in atto) o condanne, ma permettendole liberamente di riconoscere la propria condizione: “Va’ a chiamare tuo marito”.
È facile per lei immaginarsi Dio in modo “teologico”, distaccato; ma quella donna ha bisogno di salvezza in un senso vero. Un modo di fare come quello al pozzo, Dio lo aveva seguito già alle querce di Mamre (Gn 18,1ss.). Anche lì c’era qualcuno, Abramo, bisognoso di salvezza (il figlio della promessa non arrivava). Agli angeli che lo avvicinano Abramo offre da bere, e da mangiare. Anche per Abramo c’è una domanda imbarazzante: “Dov’è Sara, tua moglie?”. Anche lì si tratta di una questione di fede, alla quale Sara però non giunge, dubitando delle parole di Dio. Alle querce di Mamre, come poi al pozzo di Sicàr, è lasciato il dono dell’ospite. Ad Abramo nascerà Isacco, alla donna samaritana finalmente sarà data l’acqua viva.