Arricchirsi, impoverirsi. Al primo obiettivo ci dovrebbe pensare il Pnrr con gli oltre 200 miliardi da investire da qui al 2026, e che dovrebbero rilanciare un’economia ferma da anni. Il secondo ce l’ha portato in dote l’inflazione degli ultimi anni, che – dice una ricerca commissionata dalle Acli – ha abbassato il tenore di vita a quattro italiani su cinque. Corollario: chi prima camminava sull’orlo della povertà, oggi c’è finito dentro.
Dall’inflazione è difficile difendersi, ancor più per chi ha poche risorse a disposizione. E i nuovi poveri sono quelli meno visibili: sopra tutti i pensionati, le persone anziane per cui qualche decina di euro al mese in meno fanno la differenza e non sanno come rimediare. Grandi speranze quindi sono riposte in un rilancio dell’economia che significherebbe pure maggiori risorse per uno Stato sociale sempre più in affanno. A questo dovrebbero pensare gli investimenti stimolati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, che ancora non sta facendo vedere i suoi frutti all’interno del Pil. Per due motivi, che sarebbe sbagliato non inquadrare come problemi cruciali per l’Italia prossima ventura. Anzitutto, ogni progetto finanziato va concluso in tutto e per tutto entro il 31 dicembre 2026. Cioè domani. Significa ricevere i soldi, delineare i progetti che vanno approvati, appaltarli e realizzarli, infine collaudarli.
Non c’è alcun dubbio che la macchina ministeriale e burocratica italiana sia tra le meno adatte a realizzare tutto ciò, presto e bene. E le cronache recentissime ci raccontano di decreti ministeriali impantanati, di cambi in corso d’opera, di Ragioneria dello Stato assai perplessa, di scontri politici (anche dentro la maggioranza di governo). Noi, da spettatori esterni, possiamo solo toccare ferro.
C’è poi una scelta iniziale che pesa molto sulla “messa a terra” del Piano. Il governo Conte, che lo adottò, scelse di privilegiare una miriade di interventi, piuttosto che pochi ma assai corposi. Questo ha permesso a migliaia di interlocutori (si pensi solo ai Comuni) di avanzare progetti di qualsivoglia tipo. Nei fatti, una certa complicazione a livello burocratico. Nei fatti, soldi scesi a piccoli rivoli per la sistemazione di un parco cittadino come di un asilo nido.
In prospettiva, il dubbio che con quei soldi stiamo “aggiustando” l’Italia e facendo ciò che non è stato fatto per decenni. Ma non realizziamo quell’innovazione tecnologica ed economica che porterebbe l’Italia più verso il 2100 che il Novecento. Queste piccole sono anche le opere più facilmente finanziabili e realizzabili, e così sta accadendo. Mentre i progetti strutturali più consistenti (le infrastrutture fisiche, ad esempio) per forza di cose necessitano di tempi più lunghi e quindi termineranno – speriamo – proprio sul filo del traguardo, dando i loro frutti successivamente.
Giochiamocelo bene, questo Piano. Sarebbe “europeo”, ma la stragrande parte dei fondi sono stati richiesti da Italia e Spagna. Soprattutto Italia. In buona parte soldi che dovremo restituire all’Europa. Se avremo sviluppo economico, sarà stato un bell’investimento. Altrimenti altri mattoni (tanti) sopra la montagna del debito pubblico.
Nicola Salvagnin