La richiesta di Pietro, che a prima vista appare generosa, in verità nasconde la ricerca di un limite alla comprensione dell’altro, raggiunto il quale si può condannare, come fanno tutti. E vero che Pietro si pone un problema ignorato dall’istintivo occhio per occhio e dente per dente. Sappiamo tutti, infatti, che basta una piccola contrarietà per prendercela con l’altro e sentirlo nemico. E Pietro si collega ad una affermazione di Lamech, discendente di Caino, che mostrano la crescita dello spirito di vendetta: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette” (Gn 4, 24).
Lo spirito di vendetta crescente non riguarda solo il tempo dei progenitori, ma anche il nostro tempo. Pietro, animato da buoni sentimenti, rovescia l’atteggiamento vendicativo di Lamech, ed è pronto a sopportare più del normale e del dovuto: fino a sette volte. Ma Gesù rispondendo a Pietro abolisce ogni misura e ogni calcolo. Il perdono è come l’amore, senza limiti e senza confini. E impone a Pietro e ai discepoli di disporsi ad un perdono illimitato: settanta volte sette. Cioè sempre.
La parabola che Gesù narra contrappone alla logica del calcolo e della vendetta, quella dell’amore e del perdono senza limiti. Nel Vangelo è chiara la convinzione che solo in tal modo si blocca il meccanismo che rigenera continuamente il peccato, la divisione e la vendetta tra gli uomini. La forza perversa del male, della violenza, dell’odio, della guerra, non irretisce solo i violenti, essa rende tali tutti coloro che ne sono raggiunti. E li imprigiona in una logica dalla quale non si esce neanche con una misura pure abbondante di perdono quale sono le sette volte di Pietro. Gesù, vedendo la perplessità di Pietro, parla di un re che ha dei servi con cui deve fare i conti.
Ne arriva uno con un debito catastrofico: diecimila talenti. La cifra è simbolica (100.000 miliardi di lire circa), e indica anche l’illimitata fiducia del re che affida tanti beni ai suoi servi. Il servo descritto da Gesù non è una eccezione, è la norma perché tutti siamo dei dissipatori di beni non nostri. Siamo tutti debitori, come quel servo, ed abbiamo accumulato verso il padrone un debito enorme, credendoci padroni di quello che ci è stato solo affidato. Gesù viene a ricordarci che siamo tutti debitori, che ognuno ha accumulato un debito enorme, non misurabile, tanto che solo la grazia, la magnanimità, la compassione del padrone lo può sanare.
Se questa coscienza diventa personale e profonda si può trasmettere ad altri la misericordia che viene usata, in un contagio opposto a quello della violenza e del male. Ma se, come per questo servo descritto da Gesù, si ritorna rapidamente prigionieri della stessa mentalità che permette di accumulare un debito enorme, ecco che si guarda con durezza agli altri che domandano qualcosa. Noi che siamo rapidi a difendere noi stessi, sappiamo quanto è facile essere esigenti, pignoli, inflessibili, davanti alle richieste degli altri. La condanna di quel servo è durissima. Si potrebbe dire che egli stesso si autoesclude dalla misericordia e dalla compassione.
Facciamo fatica a comprendere il grande debito che abbiamo, accecati dalla difesa del nostro, prigionieri dell’abbondanza e del proprio diritto. Difficilmente trova spazio in noi il diritto dell’altro. Al contrario, quanto la vita degli uomini sarebbe migliore se si applicasse la legge della misericordia illimitata richiesta da Gesù! Il Regno di Dio viene così, imitando il Signore il quale ha usato verso di noi la sua misericordia in misura sovrabbondante, senza porsi alcun limite. Per questo ci fa dire: “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.