Continua la lettura del capitolo quarto di Luca, con la conclusione della scena alla sinagoga di Nazaret. Il lezionario di domenica scorsa ci ha lasciati sospesi sulla reazione della gente che ascolta le parole di Gesù, il quale proclama l’oggi della salvezza. Possiamo ora rilevare due atteggiamenti: l’accoglienza di Gesù, prima; il rifiuto della sua persona e delle sue parole, poi. “Dall’ammirazione, venata di perplessità (v. 22), i suoi concittadini passano a un atteggiamento critico, che si riflette nella risposta di Gesù stesso (v. 24); di qui allo sdegno, quindi all’espulsione dalla città e – addirittura – al tentativo di sopprimere il nuovo profeta mandato da Dio. Uno sviluppo drammatico, che prelude alla conclusione dell’intera vicenda evangelica” (Mosetto).
Luca sceglie di mettere questo episodio all’inizio del ministero pubblico, proprio per “condensare in esso l’intero ministero di Gesù e la reazione a questo” (Fitzmyer). Ma – stando al racconto così come ci si presenta – qual è il motivo del cambiamento di opinione dei nazaretani? Perché prima l’ammirazione (“Tutti gli rendevano testimonianza”; 4,22: espressione che ha sempre valore positivo in Luca) e poi il rifiuto?Il figlio di Giuseppe? I compaesani di Gesù – insieme alla sorpresa – esprimono un dubbio: “Non è il figlio di Giuseppe?” (4,22). È difficile stabilire se si tratti di un’ulteriore espressione di stupore per le parole di grazia che Gesù pronuncia (Fitzmyer; Rossé) oppure se siano una critica scettica e cinica (Mosetto), come quella che si ritrova in Mc 6,3 (dove però l’evangelista commenta la domanda accompagnandola con la reazione dello scandalo: “E si scandalizzavano di lui”).
Qualcuno (Radermakers) aggiunge un’altra lettura. La domanda sul figlio di Giuseppe nasconderebbe “un’ambiguità che Gesù porterà alla luce subito dopo; è come se dicessero ‘Non è uno dei nostri? Non abbiamo forse un certo diritto su di lui?’ I nazareni vorrebbero impadronirsi, in un certo senso, di Gesù, requisendo a proprio vantaggio le parole di grazia. Si ripete sostanzialmente la prima tentazione del deserto”. Questa interpretazione sembra buona, soprattutto vista alla luce di quanto accade dopo: i nazaretani chiedono miracoli (“Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao fallo anche qui nella tua patria”; 4,23). Forse nella domanda della folla ci sono tutte le possibilità che abbiamo visto. Gli ostacoli all’ascolto della Parola. Ma possiamo dire ancora qualcosa.
Penso a quanto accade quando la parola di Dio viene proclamata oggi. Spesse volte trova degli ostacoli. Alcuni sono dati dall’enorme distanza che separa il mondo dove quella determinata Parola è stata scritta dal nostro mondo. È il “rumore semantico”, che non ci fa cogliere il senso originale di quanto è stato scritto millenni fa, in linguaggio, cultura e modelli letterari diversi.
A questo rumore si può ovviare, in ambito liturgico, con l’omelia. Questa dovrebbe “spiegare” e attualizzare la Parola, per renderla comprensibile, e mai concentrarsi su altri aspetti invece secondari. Come ha fatto Gesù nel nostro brano: dopo aver letto Isaia, dice quello che significa. Ma non ci possiamo accontentare dell’omelia. È richiesto un impegno personale per lo studio della Scrittura. Così ci ricordano il nostri vescovi, al n. 49 degli Orientamenti pastorali per il decennio: “Va coltivato l’assiduo contatto, personale e comunitario, con la Bibbia, diffondendone il testo, promuovendone la conoscenza, anche con incontri e gruppi biblici, sostenendone una lettura sapienziale, aiutando a pregare con la Bibbia soprattutto nelle famiglie. La qualità sia della presidenza eucaristica, sia dell’omelia, sia della preghiera dei fedeli ne risulterà rafforzata, resa più aderente alla parola di Dio e agli eventi della storia letti alla luce della fede”.
L’impegno dell’ascolto. Altri ostacoli all’ascolto della Parola sono più psicologici. Anche in questo ambito ci insegna qualcosa Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, al n. 13: “Ascoltare significa lasciarsi trasformare, a poco a poco, fino a essere condotti su strade spesso diverse da quelle che avremmo potuto immaginare chiudendoci in noi stessi. Le vie che Gesù indica sono segnate dalla bellezza, perché bella è la vita di comunione, bello lo scambio dei doni e della misericordia; ma sono vie impegnative. Di qui la tentazione di non aprirgli la porta, di lasciarlo fuori dalla nostra esistenza reale. La storia del peccato, infatti, è sempre radicata nella storia del non ascolto”.
Si tratta forse proprio di questo nel nostro brano. I compaesani di Gesù non pongono inizialmente un rifiuto secco, ma forse manca loro la fede. Semplicemente non ritengono possibile che Dio inauguri davvero un giubileo di salvezza: la misericordia infinita richiede di essere accolta nella fede. E non è nemmeno possibile che questo accada nella ferialità dei segni: Gesù, dopo tutto, è “uno di loro”. Presi dal solito quotidiano avvicendarsi dei giorni, risulta loro strano che “oggi”, in quella sinagoga, con parole udibili da tutti (“con i vostri orecchi”, 4,21) si nasconda la salvezza per loro. Vorrebbe dire che i poveri, i prigionieri a cui Gesù si rivolge non sono altrove, ma lì dentro, in quella comunità, in quel momento. E questo mette in crisi: la Parola non è soprattutto per gli altri? Questo atteggiamento si ritrova anche tra noi cristiani ogni volta che, ascoltando la Parola, diciamo “questa l’ho già sentita” (oppure il sacerdote dall’ambone pensa “questa la sanno già”, e non la spiega), o anche “questa non mi riguarda”. Il Signore ci perdoni, ogni volta che non accogliamo la sua Parola, e non faccia mai che – dal nostro paese – venga scacciato il Messia.