È bello che questo brano del Vangelo risuoni a pochi giorni dalla festa di Tutti i santi e la Commemorazione dei defunti, perché ribadisce la fede nella vita che Dio ci ha donato una volta per sempre. Egli non ci ha creati a caso, ma siamo stati previsti, amati e programmati per vivere per Lui e con Lui in questo mondo e nell’altro che seguirà. La vita non è tolta con la morte, ma trasformata: così ripetiamo nella liturgia e nell’articolo finale del Credo, certi della risurrezione del nostro corpo sepolto e della vita eterna. È anche significativo che questo dialogo insidioso tra Gesù e i sadducei, suoi acerrimi nemici, si svolga a Gerusalemme pochi giorni prima della Pasqua di morte e di resurrezione. Il destino futuro che ci riguarda è inserito nel mistero stesso di Cristo risorto.
Siamo nella città santa, dove Gesù subisce gli attacchi concentrici dei suoi avversari che cercano un pretesto per denunciarlo e condannarlo a morte. Sono stati colpiti nel vivo dalla parabola dei vignaioli omicidi, chiaramente diretta contro di loro in forma profetica, e cercano come mettergli le mani addosso (20,19). Il primo tentativo di comprometterlo fu fatto su un tema politico, con la domanda sulla liceità delle tasse da pagare ai romani. Gesù aveva respinto magistralmente quell’attacco con una risposta sibillina, che però non si prestava ad equivoci (20,20.26). Ora ci riprovano, cercando di metterlo in ridicolo davanti agli ascoltatori con la storiella dei sette fratelli, mariti della stessa donna. A provocarlo sono i sadducei, nominati qui per la prima volta, ma già indicati altrove con i nomi di scribi e sommi sacerdoti.
Erano membri di una sette giudaica che riuniva i capi dei sacerdoti in servizio nel tempio (i presidenti delle ventiquattro classi sacerdotali) e i laici delle famiglie più facoltose. Molti di loro facevano parte del Sinedrio, il senato ebraico che condannerà a morte Gesù. Della Bibbia accettavano solo i primi cinque libri attribuiti a Mosè (il Pentateuco), ma erano per lo più agnostici e indifferenti in campo di fede. Svolgevano le cerimonie del culto quasi solo per interesse di guadagno; spesso disprezzati dal popolo per la loro venalità, superbia e mancanza di fede. Erano amici e collaboratori dei romani che occupavano il territorio, coprendo i loro loschi interessi. Non credevano alla sopravvivenza delle anime e alla risurrezione, né tantomeno al giudizio finale di Dio. Si presentano a Gesù con la loro finta storia dei sette fratelli per dimostrare che la fede nella risurrezione è assurda e ridicola. A tale scopo descrivono una concezione popolare dell’aldilà materialista e grossolana, come un ritorno alla vita di prima, semmai in una edizione riveduta e migliorata.
Gesù confuta questa idea così distorta del mondo futuro. Nega decisamente che la risurrezione sia un semplice ritorno alla vita di prima, sia pure perfezionata. È invece novità assoluta, inimmaginabile, nella quale il matrimonio e la vita sessuale sono superati perché non ci sarà più bisogno di procreare. I risorti sono immortali come gli angeli e sono figli di Dio. La loro vita sarà radicalmente diversa, niente affatto disumanizzata, ma conserverà i sentimenti e gli affetti coltivati in terra, in una forma di donazione gioiosa straordinaria. Unico esempio che abbiamo di questa nuova vita da risorti è Gesù. Risorgendo, non ha perso i suoi connotati umani. Ha invitato i suoi apostoli a constatare la verità storica del suo corpo e ha mostrato di aver portato con sé tutti interi gli affetti coltivati in terra. E li ha espressi nelle apparizioni alla Maddalena, alle donne a lui affezionate e ai discepoli tutti. San Paolo dice che tutto cesserà con la morte, meno l’amore che verrà invece potenziato fino all’inverosimile dalla comunione con Dio (1 Cor 13,8).
Così avverrà dell’amore dell’uomo e della donna, che si ritroveranno in Dio con una carica ancora più piena e beatificante. Tutto questo – dice Gesù ai sadducei che tentano di renderlo ridicolo – non è utopia o desiderio illusorio: è speranza e certezza cristiana fondata sulla garanzia della parola di Dio. I suoi avversari avevano esordito dicendo: “Mosè ci ha prescritto”; Gesù porta la sfida sul loro stesso campo, citando ancora il grande legislatore intermediario tra Dio e il suo popolo (Es 3,6). Ciò che lui afferma “lo ha già indicato lo stesso Mosè ha proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Dio non è dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per lui”. I patriarchi vivono in Dio per la potenza salvifica del Suo amore, non sono scomparsi nel nulla, sono nella vita eterna. E come loro tutti gli uomini che sono vissuti sulla terra, da Adamo fino ai nostri giorni. La vita che Dio dona all’uomo è data per sempre.
Dio annulla la morte con la sua alleanza di vita, e garantisce a tutti l’immortalità. Nel Prefazio della messa dei defunti, noi proclamiamo: “Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata”. La vita si trasferisce da questo mondo a quello di Dio in una forma che rimane misteriosa per noi, ma che è assicurata dalla parola stessa del Signore. Questo fino al giorno in cui tutti risorgeranno: “Verrà l’ora – dice Gesù – in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio dell’uomo e ne usciranno; quanti fecero il bene, per una risurrezione di vita, e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna” (Gv 5,28-29).
Questa è la dottrina della Chiesa, che nella professione di fede ci fa ripetere: “Credo nella resurrezione della carne e nella vita eterna”. È una certezza che pochi, anche cristiani, oggi coltivano, ma è l’unica speranza capace di dare senso all’esistenza e autenticità alla fede. Senza questa certezza, è vuota la nostra fede, noi siamo ancora nei nostri peccati, i morti sono perduti. “Se noi abbiamo speranza in Cristo solo in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,14-19). È molto triste vivere nella prospettiva che tutto finirà; che le fatiche, gli affetti, le gioie e i dolori, saranno sepolti definitivamente con noi e diventeranno polvere dispersa al vento. Non avrebbe senso vivere onestamente una vita di sacrifici e di impegni. Sarebbe una beffa del destino, capace solo di produrre angoscia e disperazione.