La parola che ricorre in tutto il tempo di Avvento è: aspettate, vigilate, il Signore verrà. I verbi tutti al futuro. Perfino il giorno della vigilia, Isaia scrutava ancora il lontano orizzonte e diceva di sé: “Non mi concederò riposo finché non sorga, come aurora la sua giustizia….” (Is 62,1). Ancora al futuro. L’attesa. All’inizio dell’Avvento – ricordiamo – in preda all’angoscia, aveva gridato: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi…” (63,19). Dio si nascondeva, apparentemente ignaro dei mali che affliggevano il suo popolo.
Nella liturgia della domenica successiva, la seconda d’Avvento, ancora Isaia esortava gli esuli di Babilonia a preparare la via, lungo la quale tutti avrebbero visto la sua gloria (40,3). Gli faceva eco Giovanni Battista: “Raddrizzate i suoi sentieri” (Mc 1,3), perché su di essi arriverà colui che aspettate. E nella terza domenica insisteva: coraggio! “Dio farà germogliare la giustizia dalla terra” (61,11). E Giovanni il Battista parlava di Uno che verrà.
Dopo tante promesse, finalmente questa notte ci è dato assistere alla loro realizzazione: il profeta scoppia di gioia, annunciando che “un bimbo è nato per noi” (Is 9,6). Un neonato straordinario, un vero miracolo di Dio; lo chiameranno “Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace” (9,7), destinato a regnare come Davide. E nella messa del giorno, alla prima lettura, è ancora Isaia a cantare lo stupore per la notizia inaspettata: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace” (52,7).
Per noi occidentali moderni, prosaici, disabituati alla poesia, ci appare quasi incomprensibile che qualcuno si commuova a contemplare i piedi di un antico portaordini, appiedato, che arranca su per i monti. Per quel poeta che era Isaia, non sono i piedi ad essere belli, ma la gioia per la lieta notizia, che su quei piedi correva. (Non trovate che il profeta/poeta abbia anticipato di due millenni e mezzo il cameraman che, prima di inquadrare il paesaggio, inquadra i piedi del messaggero, poi lentamente allarga sulla sua persona e finalmente sui monti?). L’annuncio fu diretto, per primi, ai giudei esuli in Babilonia, sterminata pianura.
L’accenno ai monti dovette richiamare loro la Giudea montagnosa, “i monti che cingono Gerusalemme” (Sl 125,2). A noi richiama i monti attorno a Betlemme, e un messaggero celeste che i pittori hanno rappresentato con le ali. La lieta notizia, questa volta, non è per qualcosa che avverrà, ma per qualcosa di già avvenuto: non gli dèi di Babilonia, ma Dio regna. Non è Cesare Augusto il vero re, ma quel bimbo sconosciuto ai grandi dell’impero. Alla voce del portatore della lieta notizia si aggiungono le voci delle sentinelle che vegliano sulle mura, anzi sulle rovine di Gerusalemme; poi alla voce si aggiunge il “vedere”.
Le sentinelle vedono “con gli occhi” il ritorno del Signore in Gerusalemme. Poi le rovine stesse di Gerusalemme entrano nel coro e prorompono in canti di gioia. Prima è solo una voce solista, poi vi si aggiunge il coro delle sentinelle, ora è un’intera città, ancora in rovina, che giubila, perché Dio si è fatto presente visibilmente, liberando il suo popolo. Il tempo del suo nascondimento è passato. Dopo qualche secolo, alla voce del messaggero celeste che annuncia la nascita del Salvatore si unirà quella di un coro sterminato, che dava gloria a Dio e augurava pace agli uomini (Lc 2,13). Questa notte Dio si è reso concretamente visibile, come allora, quando tornò a Gerusalemme, insieme a tutto il suo popolo (Is 52,8).
“Quando apparvero la tenerezza di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per le opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia…” (Tt 3,4-5). Con queste parole, Paolo – nella seconda lettura della messa dell’aurora – ricorda al suo discepolo Tito il cuore dell’annuncio cristiano: Dio si è rivelato come tenerezza. Che cosa c’è di più tenero di un neonato? Il mistero, rimasto velato per secoli e millenni, questa notte è diventato visibile “con gli occhi”.
Le antiche Scritture ne avevano già parlato, ma nessuno lo aveva ancora visto. Ora, per primi, lo vedono alcuni pecorai, lo riconoscono, e quando tornano lo dicono a tutti. Fra qualche settimana, nella liturgia, udremo il vecchio Simeone esclamare: “Ora, Signore, lasciami pure morire in pace, perché i miei occhi hanno visto il Salvatore”. I biografi di san Francesco narrano che a Greccio organizzò un presepio vivente, perché desiderava “vedere con gli occhi del corpo” il mistero di Dio divenuto bambino in fasce, bisognoso di tutto.
Alcuni decenni più tardi, Giovanni, figlio di Zebedeo di Betsaida, fratello di Giacomo, ed evangelista, ormai vecchio, ricco di esperienza e di riflessione, raccoglierà tutto in una sintesi ineguagliata, annunciando che “la Parola si è fatta carne e ha posto la sua tenda fra di noi” (Gv 1,18).