Stiamo affrontando una crisi collettiva, e la linea temporale su cui viaggiamo è la stessa: ogni forma di fatalismo è un ‘assist’ all’ Martedì 10 marzo epidemia”. Così lo scrittore Paolo Giordano scrive del virus che ha fatto diventare l’Italia intera zona rossa, ammonisce a non praticare il diffuso vezzo dell’I don’t care, “non me ne importa”.
Sono i numeri che riguardano il contagio a non consentirlo: c’è chi ha calcolato che, con una proiezione di raddoppio ogni quattro giorni, in due settimane i malati saranno 50 mila, e 400 mila a fine marzo. Se permane l’attuale tasso di mortalità, il 5 per cento, i decessi potrebbero essere 18 mila in Italia.
“Non si sa quando sarà raggiunto il picco” ha ripetuto in più occasioni Silvio Brusaferro, capo dell’Istituto superiore di sanità. Il mondo scientifico, dopo una fase iniziale punteggiata di troppe asserzioni contraddittorie, su un punto è unanime: il coronavirus ‘cammina’ sulle gambe delle persone.
Italia in quarantena
E dunque, tutta Italia in quarantena. Anche con l’intento di imporre dall’alto quel senso di responsabilità, verso se stessi e verso gli altri, che in molti, in troppi, hanno dimostrato di non possedere in queste giornate invece cruciali per provare a rallentare il contagio. Ma chi non dimostra questo senso di condivisione rischia che si inneschi, anche a causa dei suoi comportamenti superficiali, uno scenario di guerra: con gli ospedali intasati di contagiati e impossibilitati a fornire a tutti i pazienti il massimo e il meglio delle cure che meritano. “È già come in guerra. Si cerca di salvare la pelle solo a chi ce la può fare” ha ammesso il dottor Christian Salaroli, che lavora nella Rianimazione dell’ospedale di Bergamo.
Serve più solidarietà
Serve dunque un di più – rispetto al recente passato – di solidarietà e, come reclama Andrea Riccardi, di autodisciplina. Servirà – ha ribadito il sindaco di Milano, Beppe Sala – “tanto e tanto buon senso di chi governa e dei singoli cittadini”. Occorre attuare “azioni di buon vicinato”, dando sfogo alle “capacità del bene”, ha suggerito l’arcivescovo del capoluogo lombardo, Mario Delpini.
In una parola, dopo un lungo periodo in cui ognuno di noi si è potuto concentrare sui propri diritti, è ora chiamato a procedere dando la precedenza ai propri doveri. Adattandosi alle regole, e alle inevitabili ristrettezze, che i nostri nonni e genitori hanno sperimentato in tempo di guerra.
Non è semplice, se anche Papa Francesco, nell’Angelus di domenica 8 marzo pronunciato dalla Biblioteca vaticana, si è definito “ingabbiato”.
Non è agevole rinunciare a uno stile di vita da un giorno all’altro: specialmente se non c’è un colpevole da odiare ma un’emergenza comune da affrontare. “Stiamo scambiando quote di libertà con quote di responsabilità” dice il giornalista Ezio Mauro, e questo – soprattutto in un sistema mondiale globalizzato – rischia di diventare sempre più frequente.
Perché i popoli si sono avvicinati, ma le disuguaglianze sono cresciute a dismisura: non in ogni Paese del mondo vigono le stesse regole di trasparenza, né le stesse precauzioni di controllo sanitario. Così si globalizzano e si contaminano le culture, ma – in base allo stesso meccanismo – si estende il contagio tra le persone.
Quello che ci viene richiesto nella fase attuale (nessuno sa quanto lunga) è di uscire dalla gabbia di presunzione autoreferenziale in cui la società dei social media sembra aver fatto sprofondare la maggioranza delle persone. Dobbiamo giocoforza “accettare di essere parte”, come ci ricorda nel suo ultimo libro, Odiare l’odio, Walter Veltroni.
Non esiste occasione migliore di questa per “sentirci parte”. Anche perché altre strade non ce ne sono.
Daris Giancarlini