L’ingresso di Gesù a Gerusalemme è riportato in tutti e quattro i vangeli, e rappresenta quasi un inizio del racconto della Passione. Leggendo in un confronto sinottico (il mezzo principale che abbiamo oggi per comprendere pienamente i vangeli e sottolinearne lo sviluppo storico) le scene dell’ingresso messianico, scopriamo alcune significative differenze nella narrazione. Così Giorgio Jossa riassume le principali: “Il carattere messianico, trionfale, dell’episodio non è dovunque lo stesso. In realtà, esso si accentua progressivamente da Marco a Luca, a Matteo, a Giovanni. È senza dubbio Giovanni che, pur avendo il racconto di gran lunga più breve, ha aggiunto gli elementi messianico-regali di maggior rilevanza: la grande folla osannante che va incontro a Gesù da Gerusalemme (negli altri Vangeli ad acclamare Gesù sono soltanto i pellegrini che lo accompagnano), agitando quell’emblema tradizionale di vittoria che sono le palme (negli altri Vangeli si tratta invece soltanto di rami d’ulivo) e salutandolo esplicitamente come re di Israele (in Marco Gesù è soltanto colui che viene nel nome del Signore); la citazione esplicita della famosa profezia messianica di Zc 9,9, che indica espressamente in Gesù il Messia atteso dai Giudei; e l’incomprensione dei discepoli, che soltanto nel ricordo postpasquale capiscono il senso profondo dell’avvenimento, in Gv 12,16: tre elementi che spiegano più chiaramente al lettore la portata messianica dell’episodio”.
Jossa non parla di un ulteriore elemento simbolico, sul quale ci soffermiamo invece noi, l’asino. Questo è un animale spesse volte citato nell’Antico Testamento e nella tradizione interpretativa ebraica. Basti pensare alla famosa scena della legatura di Isacco di Gen 22. L’asino appare sin dalla mattina in cui Abramo, appreso che deve sacrificare il figlio, alzatosi “sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio” (22,3). Giunti vicini al monte del sacrificio, “Abramo disse ai suoi servi: Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi” (v. 5). Alla fine del racconto, quando il figlio è stato risparmiato, accade però qualcosa di strano: Isacco e l’asino scompaiono. I rabbini hanno notato che nella frase “Abramo tornò dai suoi servi; insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abramo abitò a Bersabea” (v. 19) nulla si dice di questi due, e non hanno potuto fare a meno di speculare.
Cosa è accaduto loro? Se Isacco è stato per breve tempo assunto in cielo, per andare a studiare la Torah, l’asino invece deve restare nei dintorni di Gerusalemme, per attendere la venuta del Messia di Israele. Sembra una ingenua e consolante favoletta, ma “gli elementi pittoreschi non devono nascondere il significato teologico di quest’identificazione tra l’asino del Messia e quello di Abramo: destinato fin dalla creazione del mondo a portare il re di Israele, questo asino è un segno vivo della continuità, e quindi dell’unità, del disegno divino” (M. Remaud). Insomma, se un Messia doveva venire, al tempo di Gesù lo si immaginava seduto su un asino. Leggendo i vangeli salta però agli occhi un dettaglio, e cioè il numero degli animali utilizzati da Gesù per entrare in Gerusalemme: sono due, come per Matteo (“un’asina legata con il suo puledro”, Mt 21,2), oppure uno solo (un “puledro d’asina”: Gv), oppure semplicemente un puledro (Mc e Lc, ma sul quale nessuno s’era mai seduto)?
La questione sembra banale, ma già dall’antichità ha provocato riflessioni che tentavano di spiegare la versione matteana. Giustino (Dial. 53), ad esempio, pensava che l’asina di Mt 21,5 fosse un simbolo degli ebrei soggiogati dalla Legge, mentre invece il puledro, libero e non cavalcato da Gesù, doveva essere il simbolo dei pagani che non avevano ricevuto ancora la Torah. Origene, nel suo commento a Matteo, interpretava analogamente l’asina come l’antico popolo d’Israele, e il puledro come il nuovo e giovane popolo di Dio proveniente dalle nazioni. Un commentatore dei giorni nostri, A. Mello, si avvicina a questa impostazione e interpreta i due animali come il simbolo del rapporto tra nuovo e antico patto, entrambi riassunti nel gesto messianico di Gesù: Gesù è il Messia pacifico, nel senso che crea la pace tra ebrei e gentili, tra vicini e lontani.
La questione è lontana dall’essere risolta, ma un dato non deve sfuggire. Matteo, diversamente dagli altri vangeli, applica alla lettera la profezia dal libro del profeta Zaccaria, che diceva appunto di due animali: “Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma” (Mt 21,5: Zc 9,9). Questa profezia – come è stato osservato – sembra collegata ad un brano della Scrittura ugualmente di sapore messianico, quello di 2 Sam 16,1-14. Lì, questa volta, ci sono due asini, che dovevano servire come cavalcatura a Davide e alla sua famiglia. La nota interessante per noi è che l’episodio di cui parliamo è posto vicino al monte degli Ulivi.
L’influenza di questo brano, e quello della profezia di Zaccaria, potrebbe forse spiegare perché Matteo ha scelto di sottolineare la presenza di due asini anziché uno solo. Insomma, Gesù entra a Gerusalemme come re umile e pacifico, non cavalca un cavallo come i soldati e i nobili romani che occupavano la Palestina, e questo è stridente con la figura di messia politico che la gente si aspettava. Gesù sceglie un’altra cavalcatura, ricca però di significati simbolici legati alla storia del suo popolo. Egli, che è della discendenza del re Davide, questa volta verrà a Gerusalemme per morire e non per regnarvi, e tutti noi siamo ancora oggi chiamati a comprendere il suo modo diverso di affermare la sua messianicità.