Gesù, nel suo annuncio del regno di Dio, non passava mai sopra le teste dei suoi interlocutori con un linguaggio vago, astratto ed etereo, ma li conquistava partendo proprio dalla terra dove erano piantati i loro piedi per condurli, nella quotidianità, alla rivelazione del regno dei cieli’. Così scrivevano i Vescovi del mondo, al Sinodo celebrato nel mese di ottobre, nel loro messaggio al popolo cristiano. È un dato di fatto che tocchiamo con mano proprio nel Vangelo di oggi, dove Gesù propone se stesso con l’immagine del pastore di pecore, consueta nelle campagne palestinesi del suo tempo. Chiunque poteva incontrare lungo i sentieri e nei campi un pastore intento a guidare e pascolare il suo piccolo gregge. Tra gli ascoltatori di Gesù c’erano contadini-pastori che traevano dalle pecore parte del sostentamento loro e della famiglia.
Il popolo ebreo aveva la pastorizia nel suo Dna perché agli inizi era un popolo di pastori di pecore venuto dalla Mesopotamia in cerca di nuovi pascoli. La figura era dunque al centro dell’immaginario popolare, utilizzata per i Patriarchi, Mosè, l’Esodo, Davide, e perfino il futuro Messia. L’avevano utilizzata quasi tutti i libri della Bibbia, ma in modo particolare i profeti e i salmisti ad indicare Dio che si prendeva cura del suo popolo, lo guidava, lo proteggeva, lo raccoglieva, lo circondava di cure amorose. Basti ricordare il bellissimo Salmo 23: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; in pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza. Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita”. Anche se affidato provvisoriamente ai mercenari di turno, Dio restava l’unico pastore proprietario del suo popolo. A lui tutti i pastori in seconda, cioè i re, i sacerdoti, maestri, dovevano rendere conto.
Il profeta Ezechiele lo ricorda con forza: “Eccomi contro i pastori: chiederò loro conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge. Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Le condurrò in ottimi pascoli e il loro ovile sarà sui monti d’Israele. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare” (Ez 34,10s). L’immagine del Dio-pastore serve anche per illustrare il compito del futuro Messia: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore. Io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro. Stringerò con esse un’alleanza di pace” (Ez 34,23s). A questi testi, così chiari e conosciuti, Gesù fa riferimento con la sua allegoria che oggi leggiamo. Fuori metafora, Cristo vuole indicare l’amore totale e la cura continua che egli ha per i discepoli di tutti i tempi. È disceso dal cielo per amore loro, si è fatto carico dei loro problemi esistenziali, ha dato perfino la vita per congiungerli a sé in una famiglia di fratelli.
L’allegoria inizia con un’autodefinizione che attualizza le antiche profezie viste sopra: “Io sono il Buon Pastore”. L’aggettivo greco che usa l’evangelista non è “buono” (agathòs), ma “bello” (kalòs). Vuole dire che Gesù è il pastore perfetto, meraviglioso, ideale, quello che realizza in pieno ogni aspettativa; non esisterà mai un pastore migliore di lui. Questa sua qualità è spiegata dalle caratteristiche che possiede: prima fra tutte l’amore incondizionato e la completa dedizione al gregge, fino al dono della vita. Non è un salariato che pensa solo al suo tornaconto personale e al suo guadagno. Tali erano i capi politici e religiosi del suo tempo, interessati, avidi di guadagno e di potere, che nutrivano un profondo disprezzo per i poveri. Gesù si contrappone ad essi per far risaltare la profonda differenza che lo separa da loro. Quando c’è da pagare con la sofferenza, la fatica e la morte, il perfetto pastore non si tira indietro, sta sempre dalla parte del suo gregge, con esso vive e con esso muore. Agisce solo per amore, senza calcolo.
Giovanni introduce il racconto della Pasqua così: “Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino in fondo” (Gv 13,1). Egli ha dato tutto fino alla fine. La seconda caratteristica del perfetto pastore è la conoscenza personale della sue pecore. Al tempo di Gesù, il pastore viveva in profonda comunione con il suo gregge, che era per lui una seconda famiglia. Conosceva a curava le sue pecore ad una ad una, le chiamava addirittura per nome, viveva con loro l’intera giornata, dall’alba al tramonto. Quando Gesù paragona la sua conoscenza con quella del pastore, vuole però indicare qualcosa di più profondo: la conoscenza di Gesù nei confronti della sue pecore non è solo informazione, ma rapporto di amore, di amicizia, di cura, di confidenza, di scambio reciproci. È una comunione simile a quella che unisce Gesù e il Padre. Non se ne può concepire una più perfetta e più profonda, perché è vitale.
Per sapere da dove nasce e come si manifesta, bisogna andare alla preghiera che Gesù rivolge al Padre nell’ultima cena. Qui dice che i suoi discepoli, presi dal mondo, sono dati da lui dal Padre: “Erano tuoi e li hai dati a me” (Gv 17,6). Sono perciò segnati dalla scelta divina e sono un dono prezioso, da custodire e da amare come li ama il Padre. Per la loro custodia, Gesù prega così: “Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno” (17,15). Il maligno è il lupo di cui si parla nel testo di oggi, quello che “rapisce e disperde”. Gesù è interessato quanto il Padre a custodire il gregge che i due hanno in comune e che amano con identico amore. Per tale amore Gesù prega: “Siano una cosa sola, io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me” (17,22s).
È un amore condiviso che non lascia dubbi e rassicura tutti noi, pecore raccolte in ogni tempo e luogo. Noi infatti siamo le pecore che non erano ancora nel recinto di Gesù, appartenevamo al mondo pagano, e siamo stati chiamati solo in seguito a farne parte. Noi, che abbiamo ascoltato la sua voce, siamo divenuti un unico gregge con l’unico pastore Gesù. Siamo Chiesa di Cristo, per la quale e alla quale egli ha donato liberamente la sua vita, sacrificandola sulla croce e riprendendola nella risurrezione. Sotto la guida di Gesù non possiamo essere quindi un gregge amorfo di pecore intruppate che seguono passivamente un qualsiasi pastore; ci dobbiamo sentire famiglia di Dio, figli conosciuti, amati e scelti dall’eternità da un Padre e dal primogenito Figlio. L’obbedienza consapevole alla voce del buon pastore è la nostra vera libertà. Se dovessimo smarrire la strada, ci sarà sempre quel pastore meraviglioso che cercherà in ogni modo di recuperarci e di riportarci all’unico ovile. E sappiamo che quel giorno sarà festa per noi e per lui (Lc 15,4-10).