“Il dinamismo della conversione e della penitenza è stato meravigliosamente descritto da Gesù nella parabola detta del figlio prodigo, il cui centro è il padre misericordioso”. Così il Catechismo della Chiesa cattolica (1439) spiega la scelta liturgica di collocare il nostro brano al centro del cammino di Quaresima. L’attenzione viene posta sull’amore del padre e sulla figura del figlio che torna, così come dice la seconda Colletta della messa odierna: “Padre buono e grande nel perdono, accogli nell’abbraccio del tuo amore tutti i figli che tornano a te con animo pentito”. E Luca è veramente un artista nel dipingere l’atteggiamento del padre verso il figlio minore. Cogliamo solo un paio di pennellate. Divise tra loro la propria vita. Il Padre accetta la scelta del figlio e arriva a dividere non solo le sue sostanze, ma anche il proprio cuore e la sua stessa vita.
Nel fatto di dover saldare in anticipo l’eredità non è estranea l’idea che il padre ormai sia “come morto” per il figlio minore. Il gioco semantico diventa ancora più allusivo se pensiamo che mentre il figlio minore chiede al padre di avere la sua parte di eredità (ousia), il padre divide tra i due figli il suo patrimonio, che però nel greco di Luca 15,12 è bios, cioè anche “vita”. Se ousia e bios sono sinonimi (come anche nel versetto seguente di 15,30, dove il figlio prodigo ha ormai sprecato la sua vita’averi’bios con le prostitute) è vero che in questa parabola c’è una trama di vita e di morte. Commosso fino alle viscere. Ma il padre sa aspettare il ritorno del figlio e vedendolo da lontano si commuove (15,20). Il verbo splanchnèzomai (impietosirsi’commuoversi) affonda le sue radici nell’Antico Testamento, in un sostrato semitico che è quello che si riferisce agli organi interni dell’uomo, i reni, le viscere, le rahamim, ritenuti appunto nell’antropologia biblica la sede dei sentimenti. Dovremmo quasi tradurre: il padre “si mosse a compassione fin nelle viscere”.
Luca usa il verbo anche per caratterizzare i sentimenti del buon samaritano nei confronti dell’uomo incappato nei briganti (Lc 10,33), e il sostantivo correlato per indicare – nel Benedictus – quelle “viscera misericordiae“, la misericordia di Dio che fa sorgere dall’alto il Sole di Cristo (Lc 1,78). Anche Marco e Matteo conoscono il verbo e con questo per esempio descrivono la commozione di Gesù di fronte alla folla che era “come pecore senza pastore” (Mc 6,34) o affamata (Mc 8,2). Insomma, la nostra parabola mostra l’infinita passione di Dio per l’uomo. Una volta centrato questi aspetti – da approfondire magari anche leggendo il sesto capitolo dell’enciclica di Giovanni Paolo II Dives in misericordia, tutto dedicato alla parabola del figlio prodigo, direi che non si può far esaurire qui il nostro testo. Non dimentichiamo il maggiore. Infatti non dovremmo far passare in secondo piano la ragione per cui, secondo quanto scrive Luca, Gesù racconta la parabola (insieme alle altre due della misericordia, quella della pecora e della dramma smarrite e poi ritrovate, Lc 15,4-10).
Il motivo è detto nell’introduzione: “Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: ‘Costui riceve i peccatori e mangia con loro’. Allora egli disse questa parabola” (15,1-3). I primi destinatari dell’insegnamento sono coloro che non sono contenti che Gesù accolga i peccatori: essi sono raffigurati dal figlio maggiore, dispiaciuto che il padre accolga così facilmente il prodigo e, anzi, si metta a fare festa per lui. Anch’egli sbaglia nelle relazioni. Il figlio minore ha voluto liberarsi del padre, ma nemmeno il primogenito lo considera come tale: è per lui un “padrone”, tanto che gli si rivolge dicendo ‘io ti servo da tanti anni’ (v. 29; il verbo douleuo significa proprio “servire come schiavo”, cfr. Lc 16,13; Gal 4,8-9).
Non solo, in quanto figlio, e con lo stesso diritto del minore, poteva disporre anch’egli dei beni del padre: ma non l’ha mai fatto, nemmeno per festeggiare con un capretto. Infine, il primogenito non definisce il minore come suo “fratello”, ma come “tuo figlio”‘ (v. 30). Anche verso il fratello non ha centrato quindi il rapporto.”Non mi hai mai dato un capretto”. Come mai il primogenito non ha mai fatto festa? Dice la parabola che questi ha vissuto sempre con l’attenzione volta a non trasgredire mai alcun comando (v. 29): è il tipico atteggiamento del perfetto osservante, ma che spesso indica la superficialità relazionale e non l’affetto. De filio prodigo: il titolo dato alla parabola dalla Vulgata. Ma forse potremmo leggerla anche dall’altro punto di vista, quello del figlio rimasto a casa. Se è facile identificarsi nel peccatore che torna ed è accolto dal padre, quante volte invece i cristiani sono a casa loro ma si sentono ospiti incapaci di far festa?