“La fede concretamente consiste nell’uscire dal proprio egoismo, che è pura animalità, per aprirsi all’Altro, cioè alla Divinità di Dio, cioè all’Umanità dell’Uomo”. In questo la ricerca tutta teorica (nel senso più alto della parola) di Simone Weil è molto vicina alla ricerca tutta pastorale di Dietrich BonhÈffer. Ambedue temono il declassamento della fede a retorica. Che ci si accontenti della espressione verbale della fede. Che si identifichi tout court il credente con colui che pronuncia il nome di Dio. Le fede, nella sua traiettoria umanamente percepibile, è come un vettore che muove dall’annuncio e approda alla pronuncia, ma il suo corpo succoso è nel recepire e vivere la forza di Dio che dal di dentro spinge l’uomo a uscire da se stesso per approdare a Lui. Ma l’annuncio molte volte viene meno, per mille motivi diversi: a volte perché non è così forte per vincere il frastuono del mondo, a volte perché gli uomini si fanno volutamente sordi e non vogliono rimettersi in gioco, o non ce la fanno; più spesso perché noi Cristiani non siamo credibili. Più spesso ancora per oggettive situazioni socio/culturali. E quando l’annuncio è stato carente, la pronuncia è solo un balbettio: si soprannomina “Dio” un povero parto della mente umana. Ma anche in assenza dell’annuncio e della pronuncia la Grazia instaura con il cuore di ogni uomo, con il sancta santorum della sua irripetibile personalità, un irrepetibile, unico, originale rapporto. Tutta qui la sua onnipotenza. E sulla risposta silenziosa e nascosta a questo divino input silenzioso e nascosto si gioca la positività o la negatività della vita di ognuno. “Venite. Benedetti dal Padre mio…”; “Signore, ma chi mai t’ha conosciuto?”. “Credevate di non avermi conosciuto”. Ho tanto paura di chi parla troppo di Dio, come se lo conoscesse. Devo predicare, mi è stato chiesto di farlo. Ma sapessi, amico lettore, che razza di gnocco d’impotenza ti si pianta in gola!, quando torni a prendere coscienza che le parole che dici nascondono molto più di quanto non rivelino.