Quando Gesù parla di sé, spesso lo fa utilizzando immagini o parabole tratte dall’Antico Testamento. Nel capitolo decimo del suo Vangelo, Giovanni ci offre proprio due “similitudini” (è il termine usato in Gv 10,6) con le quali il Signore vuole spiegare la sua identità profonda: egli è la porta e il pastore delle pecore. Il pastore, in particolare, non è un pastore qualsiasi, ma quello “buono”, il pastore “modello” (R. Brown).
Quest’aggettivazione (“buono”) potrebbe essere confrontata col racconto della chiamata di Davide, scelto e unto re mentre pascola il gregge del padre (1 Sam 16,11-12), e descritto dall’autore sacro come “fulvo, con begli occhi e gentile di aspetto” (nel greco della LXX: “bello a vedersi”, con un aggettivo – agathos – che significa anche “buono”). Gesù si colloca sulla scia di coloro che, nel suo popolo, hanno operato il bene, come Davide. Ma in queste figure, come pure in quella di Mosè – anch’egli investito della chiamata quando pascola il gregge di Ietro -, si trovano pur sempre segni di debolezza umana, di povertà e di peccato. Davide, soprattutto, anche se così grande davanti a Israele, non è capace di essere fino in fondo solidale con esso. Anzi, proprio mentre il suo esercito è in guerra e offre la vita per il suo re, Davide rimane nel suo palazzo, si alza tardi nel pomeriggio, e così per la sua indolenza giunge a possedere una donna che non è sua, Bersabea, e per questo capriccio arriva anche all’omicidio (cfr. 2 Sam 11,1-17).
Ecco perché, nonostante i molti pastori che lo guidano, Israele ha comunque coscienza che il suo vero pastore, quello buono, può essere Dio soltanto: “Il Signore è il mio pastore”, recita il Salmo 23,1. Gesù – poi – nel Nuovo Testamento è chiamato “il pastore grande delle pecore” (Eb 13,20), come anche nella Prima Lettera di Pietro è visto come il “pastore supremo” (l’arci-pastore; 1 Pt 5,4), che tornerà per aver cura del suo gregge per sempre. L’evangelista Giovanni spiega che il pastore modello non scappa davanti ai pericoli, e fa di tutto pur di proteggere le sue pecore, fino a dare la sua vita. Ma aggiunge un dettaglio significativo: Gesù non solo offre la sua vita per le pecore, ma la riprende (cfr. Gv 10,17.18). Forse possiamo insistere su tali espressioni. È chiaro che si sta parlando qui della morte e della risurrezione di Gesù, che in questo Vangelo sono particolarmente congiunte.
Allora, quando Gesù dice di offrire la sua vita, non si tratta di un’offerta “apparente”, falsa, come se Gesù stesse dicendo: la offro per finta, per poi magari tirarmi indietro se possibile. Giovanni, proprio nel suo Vangelo, spiega bene che Gesù ha amato i suoi e li ha amati fino in fondo, “sino alla fine” (13,1). Ma in che senso può anche “riprenderla”? Due sono i punti principali. Il primo: la può riavere proprio perché Gesù offre la sua vita volontariamente e liberamente. Questo aspetto è molto chiaro nella Passione secondo Giovanni. Quando arrivano le guardie al Getsemani, per arrestare Gesù, egli dice loro “Sono io”: in quel momento, registra Giovanni, “appena disse: Sono io, indietreggiarono e caddero a terra” (18,6). Anche nel dialogo con Pilato, Gesù nel quarto Vangelo dice: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei”. (18,36).
Gesù non si tira indietro, anche se – lo si capisce bene – potrebbe farlo: ha lui il controllo della situazione, tanto che le guardie si spaventano; e nemmeno Pilato, se Gesù volesse, potrebbe resistergli. Il secondo senso dice che Gesù non muore come tutti gli altri uomini e donne: ha il potere di risorgere, che è tutto suo, è caratteristico del suo essere profondamente conosciuto dal Padre (10,15), in una perfetta comunione con Lui. La morte di Gesù non è destinata ad essere ricordata come tutte le altre morti.
Anche se assimilabile agli eroici sacrifici di tanti uomini e donne della storia, che non hanno avuto timore di perdere la vita per amore, o magari per un ideale, per la patria, per la libertà: pur esemplari, questi gesti si risolvono però nell’esemplarità del loro eroismo. Ad essi si potranno dedicare dei sepolcri, custodi di memorie e valori, ma nei quali, “all’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto” il “sonno della morte” certo non è meno duro (U. Foscolo). Solo il sepolcro di Gesù è vuoto: colmato del suo gesto d’amore per il gregge, ora quello spazio disabitato è segno di un amore ancora più grande, quello di un Padre che è fedele e non abbandona il suo Figlio, nessuno dei suoi figli.