Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre” è “costretto” a dire il profeta Geremia innamorato del dio d’Israele, innamoramento che però è causa di tormento e di lacerazione interiori. Stando ai dati biblici, Geremia svolge infatti il suo ministero nel periodo che precede la distruzione del “primo” Tempio e la sua missione è quella di avvertire Israele che la sicurezza politica non proviene dalle alleanze umane, e nemmeno dalla confidenza “superstiziosa” nel Tempio quasi fosse un amuleto, ma dall’essere fedeli all’unica alleanza con Dio e dal praticare la giustizia e l’accoglienza. Questo messaggio forte, ma rifiutato dagli israeliti, è quindi motivo di sofferenza per Geremia che si vede beffato, perseguitato e abbandonato. Geremia, scandalizzato, deve costatare che la parola del Signore è “causa di vergogna e di scherno tutto il giorno”. Il profeta vorrebbe non pensare più a Lui perché è troppo il prezzo da pagare, ma Geremia stesso ammette che nel suo cuore c’era come un fuoco ardente, si sforzava di contenerlo, ma non poteva.
Questo linguaggio passionale, insolitamente riferito ad una divinità (che poi sarà ripreso da sant’Agostino per descrivere il momento della conversione), svela il segreto del superamento dello “scandalo” del discepolo di ieri e di oggi: aver fatto esperienza dell’amore di Dio. Come Geremia, anche Pietro nella pagina del Vangelo di questa 22ma domenica del Tempo ordinario si scandalizza dell’annuncio che Gesù fa della Sua Passione e Morte, ma, come il profeta, anche Pietro supererà la prova e, incurante delle ingiurie che dovrà affrontare, annuncerà con la parola, la lettera e la vita, la verità di Cristo. Il contesto del brano evangelico è infatti il primo annuncio della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù. Pietro ha appena fatto la sua professione di fede (Tu sei il Cristo) e Gesù lo ha confermato donandogli il “primato” (Tu sei Pietro), ma subito dopo fa presente la “necessità” di andare a Gerusalemme e “soffrire molto”. A questo punto, l’impulsività (o premura) di Pietro fa si che prenda in disparte Gesù per rimproverarLo perché secondo la sua logica non accadrà quanto ha predetto. Gesù non si rivolge a Pietro, ma a Satana ordinandogli imperativamente (come nel linguaggio esorcistico) di andarGli dietro, di fare il discepolo e non il maestro, e lo definisce “ostacolo”, “inciampo” (gr. skandalon).
Per assurdo, Pietro che poche battute prima si è sentito attribuire il titolo di “pietra sulla quale verrà edificata la Chiesa” (v. 18), ora si sente rivolgere un umiliante rimprovero quale quello di essere “pietra di ostacolo” (Is 8,14). Tuttavia, considerando quanto segue nel testo, il rimprovero di Gesù è rivolto a tutti ed è l’occasione per delineare i 3 aspetti che fanno l’identità di colui che intende andarGli dietro: rinnegare se stessi, prendere la croce e seguirLo. Nel mondo giudaico coloro che intendevano diventare discepoli (talmid) si sceglievano il maestro (rabbì), ne frequentavano la scuola e venivano introdotti allo studio della Torah. Si instaurava tra il maestro e il discepolo una certa sintonia per cui i discepoli erano fieri del loro maestro e ne assecondavano le tendenze culturali e ne imitavano la condotta di vita (si pensi a Paolo e alla sua testimonianza nei riguardi di Gamaliele, At 22,3). Quindi, dei tre aspetti propri del discepolo, due non stupiscono affatto, quali il rinnegamento di sé e la sequela, mentre quello del “prendere la propria croce” lascia esterrefatti specie se lo si contestualizza al tempo in cui Gesù proferisce queste parole. I discepoli certamente erano a conoscenza dello strumento di tortura (stauros) con cui i romani condannavano ad una truce e lenta morte gli schiavi, gli stranieri e i sovversivi colpevoli di reati contro l’impero. Era un metodo umiliante oltreché straziante perché, come monito verso gli altri cittadini, veniva eseguito in modo vistoso con il trasporto della croce da parte del condannato e la crocifissione effettuata in un luogo elevato.
Chiaramente Gesù non chiede ai discepoli di essere delinquenti e portare su di sé il proprio supplizio, ma di imitare il Suo esempio: caricarsi delle pene altrui. Non vuol dire “semplicemente” accettare le proprie sofferenze, ma molto di più: acconsentire ad andare “dietro a Gesù”, pur tra le incomprensioni umane (Geremia), “perdendo la propria vita” perché solo così la si troverà (Pietro), andando contro corrente e decidendo di “offrire i propri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). Non è un invito al dolore, alla sopportazione e alla rassegnazione, perché, (anzi!) il “Vangelo è gioia”, e nel cristianesimo “non c’è nessuna esaltazione stoica della sofferenza in quanto tale” (Papa Francesco, 17.05,’14). È un appello ad amare facendo sul serio! Chi davvero ama porta il peso delle debolezze dell’amato e ne riscatta la dignità, non si scandalizza se deve assumersene le umiliazioni. Ciò è possibile solo se nel cuore del discepolo c’è “come un fuoco ardente” …