Dei tre formulari del Messale proposti oggi dalla liturgia ho scelto il terzo, perché collega direttamente la solennità di oggi a quella di Tutti i santi celebrata ieri. Delle tre celebrate in questa giornata, questa sarà probabilmente la messa più affollata. Il collegamento stabilito dal Vangelo con la festa di tutti i santi dona alla nostra celebrazione un senso cristiano di festa che sovrasta quello del lutto.
È la celebrazione della speranza cristiana, quella che lenisce il doloroso ricordo di parenti e amici che ci hanno lasciato e che andiamo a visitare nel cimitero. Quella folla variegata che affolla oggi il camposanto, con mazzi di fiori in mano, e con la preghiera sulle labbra, muta e pensosa, è la carovana di pellegrini in viaggio verso la patria vera, quella che i loro cari hanno già raggiunto. Qualcuno ha le lacrime agli occhi per un ricordo non ancora sbiadito, qualche altro smorza i toni del suo parlare, timoroso di disturbare coloro che dormono, e concentrato sul pensiero della morte che almeno oggi reclama la sua attenzione. C’è chi appare impacciato e smarrito, perché ha perso i contatti con Dio e con l’aldilà e a stento riesce a ritrovare spezzoni di preghiere imparate da bambino e poi dimenticate.
Questo silenzioso pellegrinaggio ci dice che tutti abbiamo i nostri santi in paradiso. Sono i nonni, i genitori, i fratelli, i figli che ci hanno preceduto nel passaggio da questa terra al cielo e ora vivono più vicini a Dio in una festa senza fine. Nell’attesa che anche noi li raggiungiamo, essi pregano per noi, ci invitano a pensare a loro con serenità, senza disperazione, perché la loro vita non è tolta, ma trasformata in meglio. Ho già commentato le beatitudini (che riascoltiamo in tempi così ravvicinati, in due feste successive che si rincorrono) nella IV domenica del Tempo ordinario del 3 febbraio scorso. Chi vuole può rileggersi le cose che ho scritto allora. Qui vorrei commentare il Vangelo alla luce del collegamento liturgico tra la festa dei santi e la commemorazione dei defunti. Esso non è fatto a caso. Nasce dalla certezza di fede che i nostri morti fanno parte della grandissima schiera di santi accolti da Dio nella sua casa del cielo. Non abbiamo ascoltato più volte che “Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”? Che “Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”? La volontà di Dio non cade nel vuoto come tante nostre buone intenzioni.
Dio realizza ciò che promette, non concepisce progetti velleitari. Dunque la stragrande maggioranza dei nostri morti è stata salvata da Dio e introdotta nella vita eterna. L’Apocalisse di Giovanni ieri descriveva così quel grande popolo cosmopolita di salvati: “Vidi una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono e all’Agnello” (Ap 7,9s). Le beatitudini ci dicono che Dio non ha garantito il regno dei cieli solo agli eroi della testimonianza cristiana, quelli registrati nei nostri calendari, ma l’ha assicurato anche a tutti quei credenti anonimi che ha elencato sul monte di Galilea. È un catalogo esemplificativo composto di otto categorie di persone umili e di semplici che non hanno fatto parlare di sé i giornali o le televisioni, ma hanno vissuto con impegno e con amore una vita per tutti difficile e faticosa, la nostra vita quotidiana. Sono loro ad affollare il paradiso, per niente a disagio o in soggezione davanti a san Pietro, san Paolo, san Benedetto, san Francesco, santa Chiara, santa Teresa e i grandi martiri di tutti i tempi, nemmeno quelli sepolti nelle nostre cattedrali medioevali, che hanno fondato le nostre Chiese.
Scorrendo le beatitudini ci si rende conto che esse oltrepassano i confini della cristianità, perché alla loro base Gesù non mette nessuna motivazione di fede. Non dice, per esempio: beati i poveri in spirito cioè coloro che abbracciano la povertà per amore di Dio o la sopportano con spirito di fede. Dice semplicemente che Dio proclama beato, e quindi candidato al suo paradiso, chiunque viva la povertà o come scelta di vita umile o come situazione dolorosa; chi non rincorre la ricchezza ad ogni costo, ma si contenta di ciò che guadagna onestamente; valorizza chiunque è afflitto e sopporta la sua situazione con pazienza o vive la sofferenza per solidarietà con il prossimo nel dolore; ama chiunque è mite perché ha scelto come arma di offesa o di difesa la non violenza e si è proposto di fare sempre del bene e di non far soffrire nessuno con il proprio agire.
Gesù prende in affettuosa considerazione chiunque ha fame e sete di giustizia, perché si impegna e si schiera fattivamente a difesa del più debole nella lotta all’ingiustizia, da qualunque parte venga. Egli chiama beati i misericordiosi disposti ad aiutare chi ha bisogno e a perdonare i torti o le offese senza coltivare sentimenti di odio o di vendetta, anche se non sanno che, così facendo, imitano Dio e sono suoi figli. Proclama beati i puri di cuore, pensando a tutti coloro che vivono con onestà e rettitudine i loro rapporti umani, a qualunque categoria, religione o razza appartengano, perché l’onestà non ha colore. Dichiara beati gli operatori di pace come costruttori della convivenza umana sia a livello familiare che a livello sociale e internazionale, perché sanno tessere armonia e concordia in maniera disinteressata; gente umile, silenziosa, instancabile che sa avere pazienza per attendere e per sperare anche quando sembra impossibile rimuovere gli ostacoli, i risentimenti, gli odi inveterati.
Infine Gesù proclama beati tutti i perseguitati per amore della giustizia, cioè tutti i martiri che cadono vittime dell’intolleranza religiosa e politica; coloro che sono discriminati per ragioni di fede, di razza, di nazionalità, colpevoli solo di essere diversi nel pensare e nell’agire, perciò calunniati, malvisti, insultati, emarginati. Tutta questa gente numerosa ha camminato con noi sulle strade scomode e dissestate di questo mondo, e ora riposa nei nostri cimiteri (“cimitero” è parola greca che significa “dormitorio”) in attesa della risurrezione finale, quando apparirà la grandezza e la gloria di ognuno. Intanto essi sono nel mondo di Dio, a un passo dal nostro, dove godono la gioia della loro beatitudine. Lì ci aspettano trepidanti, ansiosi di riunirsi a noi per ricostruire la loro famiglia spezzata in terra dalla morte.