Grazie al suo spiccato simbolismo, la pericope di Marco che oggi il lezionario ci propone si presta ad una duplice lettura. La prima è centrata sulla figura di un uomo concreto e su un avvenimento (quello della sua guarigione) storico e particolare, unico per chi ne ha avuto il beneficio: è quanto ci fa dire che il miracolo di Gesù in primo luogo è stato un miracolo per il sordomuto, che prima non udiva e non parlava, e che poi parla correttamente. La seconda interpretazione, invece, si espande verso una prospettiva che oltrepassa l’avvenimento in sé. Tutto, nel nostro brano, si presta a diventare simbolo.
La conferma che l’operazione che vogliamo compiere non è una forzatura ci viene dalla prassi liturgica, che ha compreso la pericope proprio in tale chiave: sappiamo bene, infatti, che i gesti di Gesù verso il sordomuto non solo erano evocati, ma venivano addirittura ripetuti nel rito battesimale antico. Anche nel rito attuale il gesto dell'”Effatà” è posto dopo il battesimo, ed è accompagnato dalle parole: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare la sua parola e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre”. Da qui una prima osservazione.
La Chiesa ha seguito l’esempio del Maestro sin dalle origini, ripetendo le sue parole e i suoi gesti, nella certezza che, grazie alla presenza dello Spirito, il Risorto avrebbe continuato ad operare prodigi proprio allo stesso modo, nonostante la sua apparente assenza. Proseguiamo allora nella lettura del testo, tenendo fermo il piano storico del racconto e quello simbolico. Il sordomuto. Il sordomuto era uno straniero, nel senso che non apparteneva al popolo dell’Alleanza: ma non era semplicemente sordo e muto, era ritenuto anche “sordo allo Shemà, all’ascolto della rivelazione di Dio e balbuziente nel parlare a Dio, nel lodarlo” (E. Bianchi, Evangelo secondo Marco).
Il miracolato, allora, prima e dopo la guarigione, è ognuno di noi, prima straniero e ospite, e poi familiare di Dio (cfr. Ef 2,19): è ogni discepolo che si avvicina alla persona di Gesù, e il suo miracolo è segno di quel rapporto – la fede – che lega il credente al Signore. Spiega bene J. Gnilka: “Il fatto che Gesù apra gli orecchi del sordo significa che egli può donare la comprensione che è necessaria per la fede. Senza questa grazia l’uomo resta un sordo di fronte al vangelo”. I gesti di Gesù. Il fatto che Gesù metta le sue dita negli orecchi del sordomuto e bagni la sua lingua con la saliva – azioni dense di fisicità – ci dice la preoccupazione di Gesù: quella di farsi capire da un sordomuto: quei gesti concreti e visibili sono infatti gli unici comprensibili attraverso i rimanenti sensi di cui il sordomuto dispone.
Sono gesti diffusi nella cultura mediorientale, compiuti per guarire malattie, e conosciuti anche nella storiografia dei pagani. Ma sono accompagnati da un altro gesto che rappresenta invece un’assoluta novità: “Gesù alza gli occhi al cielo: questa non è soltanto una formula stilistica ma è un particolare che introduce un gesto salvifico da parte del Signore. Gesù alza gli occhi al cielo per compiere un atto di preghiera, per rivolgersi al Padre, e confessare che ogni potenza viene da lui”. Però questo “non è solo un pio gesto religioso, ma è una rivelazione dell’origine della potenza che Gesù porta in sé: Dio. Sappiamo, infatti, che l’AT come il Nuovo non concedono all’uomo la possibilità di alzare gli occhi al cielo. Il pubblicano è lodato perché non alza gli occhi e si confessa indegno di mettersi in dialogo con Dio. Solo Stefano e la Chiesa alla fine dei tempi possono alzare gli occhi e vedere, ma perché Cristo ha schiuso i cieli per l’umanità e l’ha riconciliata con Dio” (E. Bianchi).
Ecco che anche questa volta ciò che ci dice il brano non vale solo per il sordomuto, ma anche per chi, da discepolo, vede in Gesù il Figlio di Dio che salva e ci abilita a stare davanti al Padre. Le parole della folla sono molto importanti, perché esprimono il commento di Marco e danno un forte valore teologico al miracolo di Gesù. Sono composte da due riferimenti intertestuali, alla Genesi e al libro del profeta Isaia. L’allusione a Genesi si ritrova nelle parole “ha fatto bene ogni cosa”, e richiama il composto poieo + kalos (“fare” + “bene”/”buono”) di Gen 1 (“e Dio fece… e vide che era cosa buona”): questa citazione dice che per mezzo dell’attività di Gesù viene rinnovata la creazione decaduta.
La citazione di Isaia invece fa già presentire che il tempo della salvezza è vicino, sta ormai irrompendo nella storia: quanto promesso dal profeta è realizzato veramente in Gesù, anche se i lettori comprenderanno pienamente il testo di Is 35,5 solo quando verrà compiuto anche il miracolo della guarigione di un cieco (Mc 8,22-26). Anche per le due allusioni Marco ci fornisce una duplice chiave di lettura: se la folla commenta ciò che effettivamente ha visto, l’interpretazione del miracolo si serve però di testi ricchi di significato, che parlano di “creazione” e “salvezza” universali, valide ancora per noi. Di nuovo, allora, questi dati confermano a tutti coloro che ascoltano le letture di oggi che il Vangelo è vivo, salva ancora e “scioglie le nostre catene”, e che Gesù opera sempre la sua salvezza per chi a Lui viene condotto.