Scrivo sotto l’urto delle immagini che vengono da Haiti. Squarciano il cuore. Mozzano il fiato. Ti obbligano a vedere quello che normalmente si cerca di rimuovere dall’informazione e dalla coscienza: povertà e dolore. Di fronte a una catastrofe di tali proporzioni, per un istante il mondo è costretto a fermarsi. Ognuno di noi si vede, virtualmente, sotto quelle macerie. La precarietà della nostra vita e delle nostre sicurezze non è più un pensiero “filosofico”: è un’evidenza palmare. Le reazioni possono essere diverse. Ci può essere anche la reazione esacerbata di chi se la prende con Dio e con gli uomini. Chi ha fede – almeno se crede cristianamente – porta gli occhi al Crocifisso, e ricorda che Dio è lì, sotto quelle macerie, come un giorno sulla croce del Calvario. Può esserci anche la reazione del cinismo e dell’indifferenza. Ma una cosa – e questa certo così ricca di speranza – emerge puntualmente in occasione di queste grandi calamità: scatta imperiosa l’istanza della solidarietà. Accomuna gli uomini di tutte le fedi, di tutte le parti politiche, i “vip” e gli uomini “comuni”. Tutti sentono di dover dare un segno di solidarietà. Tanti si mettono in cammino: medici, giovani, soccorritori. E d’incanto si vive, come fatto straordinario, quello che dovrebbe essere normale: la solidarietà che ci unisce al di là delle distanze, delle culture, delle razze, degli interessi di parte. Per un momento l’amore ha la meglio. La “globalizzazione” mostra il suo volto migliore, quello che Giovanni Paolo II chiamò, con uno slogan programmatico, la “globalizzazione della solidarietà”. E viene da chiedersi: ma perché questo moto spontaneo, così bello, così “vero”, non diventa il modo essere quotidiano del mondo? Perché ci vogliono le catastrofi a suscitarlo? E ci si domanda anche perché questa solidarietà non possa andare oltre l’obolo d’emergenza, diventando una legislazione planetaria di equità e solidarietà, che impegni i Paesi ricchi a non perpetuare politiche che allargano la forbice tra opulenza e miseria, spesso apportando disastri irreparabili anche all’ambiente. Una solidarietà che spinga al tempo stesso i Paesi poveri, una volta garantiti da questa logica di condivisione, a non cedere alle paghe miserabili del più indegno sfruttamento, innescando la concorrenza che ispira le “delocalizzazioni” e manda sul lastrico i lavoratori dei Paesi industrializzati. Guerra tra poveri! A quando un mondo veramente solidale? È un discorso che interessa tutti. Ma certo noi cristiani dobbiamo stare in prima linea. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli – parola di Gesù – se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Non si tratta solo di un impegno morale tra le singole persone. L’amore, cristianamente inteso come “dono di sé”, è un principio che può e deve segnare le istituzioni, le culture, la legislazione, l’economia. Esperienze interessanti, come quella dell’economia di comunione concretamente sperimentata dal movimento dei Focolari, vanno in questa direzione. Il volontariato, nelle sue più diverse espressioni, interpreta la stessa logica. Sono certo realtà ancora minoritarie, rispetto ai grandi movimenti di una economia e di una finanza internazionale che inseguono logiche di profitto e spesso di speculazione. La grande crisi che stiamo attraversando è un campanello di allarme che può richiamare tutti a una riflessione più accurata, e magari a una “conversione”. È in gioco la civiltà stessa. Per noi cristiani essa non può essere che la “civiltà dell’amore”.
Globalizzare la solidarietà
Parola di vescovo
AUTORE:
Domenico Sorrentino