In questa domenica, Solennità della Santissima Trinità, la Liturgia della Parola si apre con l’accorato appello che Mosè fa agli israeliti perché si mantengano sempre fedeli al Signore. Attraverso delle domande provocatorie e il riepilogo dei prodigi compiuti dal Signore a favore del suo popolo, Mosè elabora un discorso in “crescendo” per potenziare la ricettività degli uditori.
Parte infatti dalla base dell’indole del popolo biblico, l’ “ascolto”, per continuare con il “vedere”, fino al “conoscere” per giungere al “custodire” prescrizioni e comandi. Questo è inteso come lo “schema dimostrativo”, tipico del libro del Deuteronomio perché, più che insistere su questioni teoriche, insiste sulla fede che nasce dal “riconoscere” gli interventi concreti del Signore nella storia degli uomini. “Retta è la parola del Signore e fedele ogni sua opera”, afferma quindi il Salmista e ogni credente che constata l’intervento del Signore nella sua vita. Con la novità di Cristo, il credente è tuttavia elevato ad una dignità maggiore: non solo assiste alle opere di Dio, ma ne è partecipe perché è divenuto “figlio di Dio”.
La Lettera ai Romani propone un insegnamento originale. Fino ad ora “figlio di Dio” era attribuito solo a Gesù, ma grazie all’opera dinamica dello Spirito santo che trasforma gli uomini da “schiavi” a “figli adottivi”, tutti i credenti possono rivolgersi a Dio con l’invocazione aramaica “Abbà” per cui entrano in uno stato di comunione e di confidenza con il Padre.
E come ci presenta il brano tratto dall’ultimo capitolo del Vangelo secondo Matteo, vengono anche investiti del ruolo di far divenire altri “figli di Dio”. Siamo nel momento in cui le donne stanno lasciando in fretta il sepolcro per andare a dire ai discepoli della Risurrezione quando invece Gesù va loro incontro e, dopo aver lasciato che esse Lo adorassero, ordina lo- ro piuttosto di andare a dire ai discepoli di recarsi in Galilea dove lo “vedranno”.
Gli “undici” eseguono e si recano in Galilea su un “monte che Gesù aveva loro indicato”, ritenendo perciò che si tratti di un monte “familiare”. Potrebbe essere quello dove Gesù aveva tenuto il Discorso della Montagna (5,1) o quello della Trasfigurazione (17,1), oppure il “monte alto” dove Gesù era stato tentato dal diavolo (4,8) che gli aveva promesso il dominio su tutti i “regni della terra” se si fosse prostrato ai suoi piedi. Non è escluso possa trattarsi proprio di quest’ultimo e, andando avanti, ne comprenderemo i motivi. Intanto è interessante notare la sinteticità della narrazione: gli Undici “vanno” in Galilea, Lo “vedono” e “si prostrano”.
A questo punto c’è un ennesimo gesto misericordioso di Gesù: “alcuni di essi” dubitano, allora Gesù si avvicina e li rassicura confidando loro che ha “ogni autorità in cielo e sulla terra”. “Ogni autorità” vuol dire che ha il potere anche di dominare la morte. I discepoli Lo hanno visto qualche giorno prima sottoposto ad una straziante tribolazione e i loro cuori sono ancora amareggiati e le loro menti confuse, ma Gesù li ha convocati proprio nella terra dove tutto ha avuto inizio, dove il successo della predicazione e dei miracoli è stata palese ed ha attirato folle al Suo seguito. In questa parte di mondo che ha visto gli “inizi” della missione di Gesù, vede ora gli “inizi” della missione apostolica.
Abbiamo accennato all’ipotesi che Gesù abbia convocato gli Undici proprio sul monte dove il diavolo pretendeva si fosse prostrato a lui per avere in cambio il dominio sulla terra, e di fatto potrebbe essere in quanto qui è Gesù che – di contro afferma che gli “è stata data (passivo ‘teologico’) ogni autorità in cielo e sulla terra” da parte del Padre. Oltre ad aver ricevuto “ogni autorità” sulle forze ostili del male e della morte, l’ha ricevuta anche in termini spaziali, cioè ovunque “in cielo e sulla terra”. È su questo “monte alto” che qualcuno si prostra (gli Undici), non alla seduzione, ma a Cristo. È da qui che Gesù invita gli Undici ad “andare” e a “fare discepoli tutti i pagani” raggiungendo così tutti gli abitanti della terra. Il sostantivo plurale greco che traduciamo con “pagani”, secondo l’uso che ne fa l’evangelista Matteo, è da intendere tutti coloro che non sono ebrei. Non che loro fossero esclusi in quanto nelle pagine precedenti è riportato il monito di Gesù di “andare (proprio) alle pecore perdute della casa d’Israele”, ma questa missione sta per essere completata con quella che da ora parte per raggiungere tutti gli abitanti della terra.
Le raccomandazioni che Gesù trasmette relativamente a questa missione universale sono due: battezzare e istruire. Il solo rito del Battesimo non può essere sufficiente se non viene sostenuto da una formazione dottrinale che scaturisce dal Mistero trinitario. Il penultimo versetto del Vangelo secondo Matteo è infatti il fondamento della formula battesimale (“battezzandoli [tutti i pagani] nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”) che trova riscontro nella Didaché dove, in merito al Battesimo, è suggerito di “battezzare in acqua viva nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”. Il Vangelo secondo Matteo conclude quindi con le ultime paterne parole che Gesù rivolge ai Suoi: i discepoli dovranno “lottare” per scegliere se assecondare le seduzioni di una conquista facile del mondo o se optare per un servizio al mondo attraverso l’evangelizzazione che incontrerà anche persecuzioni e ostacoli. Gesù allora li conferma presentando un Dio che è Trinità, quindi Amore, e che è sempre con loro “sino alla fine del tempo”.
LA PAROLA della Domenica
PRIMA LETTURA
Dal Libro del Deuteronomio 4, 32-34.39-40
SALMO RESPONSORIALE
Salmo 32
SECONDA LETTURA
Lettera ai Romani 8, 14-17
VANGELO
Vangelo di Matteo 28, 16-20