Il Vangelo di questa domenica si colloca poco prima dell’ingresso di Gesù nella città santa. Era ormai evidente che le sue parole suonavano in modo totalmente estraneo alla religiosità allora dominante, sino al punto da sconvolgerne l’assetto. Il fronte dell’opposizione si era allargato e per di più aveva deciso di eliminare Gesù. E lui ne era cosciente: sapeva bene che se avesse continuato su quella via per lui sarebbe stata la fine. Ma non si fermò.
Non poteva smussare il Vangelo, né ridurne le esigenze. Del resto già i profeti avevano sottolineato la distanza che intercorreva tra il modo di pensare di Dio e quello degli uomini. Nel capitolo 55 del profeta Isaia si legge: “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”. La distanza tra il cielo e la terra (ossia i modi di ragionare, di pensare, di comportarsi nei due mondi), era uno dei dogmi dell’antico Israele. La parabola degli operai dell’ultima ora si iscrive in questo contesto di alterità.
Le parole di Gesù suonavano del tutto estranee alla comune giustizia salariale. Non si era mai visto che un padrone desse la stessa paga a coloro che avevano lavorato per tutto il giorno come a quelli che avevano lavorato per un’ora sola. Gesù parla di un imprenditore agricolo, un viticoltore, che per l’intera giornata è preoccupato di assumere lavoratori per la sua vigna. Esce di casa per cinque volte: all’alba (e pattuisce con i primi lavoratori un denaro di compenso, paga ordinaria di una giornata lavorativa), poi alle nove del mattino, a mezzogiorno, alle tre e infine alle cinque. La risposta che danno questi ultimi lavoratori al suo invito (“nessuno ci ha presi a giornata”) fa pensare a tanti, giovani e meno giovani, disoccupati, non solo o non tanto nel lavoro remunerato, quanto nel lavoro per costruire una vita solidale.
Peggio se occupati in età giovanissima e in situazioni di degrado umano. Sono tanti i disoccupati in questo senso: sono quei giovani, magari disillusi oppure soggiogati dal consumismo che si ripiegano su se stessi, esecutori e vittime allo stesso tempo. E forse dobbiamo dire che sono così anche perché “nessuno li prende a giornata”. Venuta la sera, continua la parabola, inizia il pagamento. Gli ultimi ricevono un denaro ciascuno. I primi, visto quanto accade, pensano di ricevere di più.
È logico pensarlo, forse anche giusto. La sorpresa nel vedersi trattare come gli ultimi li porta alla mormorazione contro il padrone: “questo non è giusto” sono tentati di dire. E in effetti gli ascoltatori della parabola (forse anche noi) sono portati a condividere questi sentimenti. Ma è proprio qui la distanza tra il cielo e la terra. È anzitutto da chiarire che Gesù non vuole impartire una lezione di giustizia sociale, né presentare uno dei comuni padroni di questo mondo che, giustamente, ricompensa secondo le prestazioni date. La giustizia di Dio non è la giustizia degli uomini. Gesù presenta un personaggio assolutamente eccezionale, il quale tratta i suoi sottoposti al di fuori delle regole legalitarie.
Insomma, il comportamento del Padre, la sua bontà, la sua magnanimità, la sua misericordia, superano il comune modo di pensare. E lo superano “quanto il cielo dista dalla terra”. Lavorare per il Signore e non per la sopraffazione o addirittura per la morte è già una grande ricompensa. Questa straordinaria bontà e misericordia crea mormorazione e scandalo. Ma non è che Dio distribuisca a capriccio la sua ricompensa, donando a chi più e a chi meno. Dio non fa ingiustizia.
È la larghezza della sua bontà che lo spinge a donare a tutti secondo il loro bisogno. La giustizia di Dio non risiede in un astratto principio di equità; si misura piuttosto sul bisogno dei suoi figli. E la nostra ricompensa sta nell’essere chiamati a lavorare per la vigna del Signore e nella consolazione che ne deriva, non importa se lavoriamo da tanto o da poco tempo nella vigna.