Alla domenica delle Palme non solo si legge l’intero racconto della passione di Gesù – unica volta nell’Anno liturgico, insieme a quella del Venerdì santo -, ma viene proclamato anche il brano dell’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme. Di questo racconto, spesso non vengono presi in considerazione i primi versetti, dove si narra di Gesù che comanda ai discepoli di preparargli una cavalcatura per entrare in città. Gesù dice loro: “Andate nel villaggio che vi sta di fronte, e subito entrando in esso troverete un asinello legato, sul quale nessuno è mai salito. Scioglietelo e conducetelo” (Mc 11,2). La scena si complica ulteriormente, quando Gesù presenta una possibile obiezione che potrebbero fare ai suoi discepoli: “E se qualcuno vi dirà: Perché fate questo?, risponderete: Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito” (Mc 11,3).
Di fatto, proprio così accade, e alla protesta dei proprietari del puledro (così in Marco, che usa un vocabolo generico che può valere sia per il puledro d’asino sia per quello di un cavallo), rispondendo come il Maestro aveva detto, vengono lasciati andare. Il tutto prende sei versetti del racconto marciano, generalmente parco, tanto che siamo autorizzati a domandarci il senso di tale insistenza. Gesù infatti, attraverso la questione del puledro, si sta comportando come un vero re che entra a Gerusalemme. Egli esercita il suo diritto regale di “nuovo possessore messianico” (R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo, II, 57) in conformità a quanto detto in un passo biblico molto noto, quello dal Primo libro di Samuele (8,16), e che probabilmente Marco aveva in mente.
Al tempo del profeta Samuele, ricordiamo, gli ebrei non avevano ancora un re. Erano stati a loro capo diversi giudici, e ultimamente Samuele stesso, ma, mentre il profeta è vecchio e sta per morire, la sua gente ha paura di non aver più qualcuno che li governi. Recandosi da lui, gli dicono: “Ora stabilisci per noi un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli”. Samuele non è d’accordo, teme che un re tolga la gloria a Dio, l’unico che può essere il Signore del popolo dell’Alleanza. E mette davanti vari ostacoli ed inconvenienti, che nasceranno quando il re, se verrà scelto, causerà con le sue molte pretese. Tra queste, oltre alle tasse, al servizio militare obbligatorio, ai molti obblighi, ve ne è uno che veniva chiamato nell’antichità angaréia (da cui anche l’italiano “angheria”), ovvero l’obbligo di fornire un mezzo di trasporto al re che, al bisogno, lo richiedesse.
Dice precisamente il profeta Samuele: “Queste saranno le pretese del re che regnerà su di voi: Vi sequestrerà gli schiavi e le schiave, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori” (1 Sam 8,16). Sembra proprio quello che fa Gesù, operando un'”angheria” che però ha un forte significato teologico e cristologico. Chi può permettersi un tale “sopruso” (ma come sappiamo, l’asino verrà subito restituito) è infatti solo il legittimo re d’Israele. È lui solo che, contrariamente alle norme rabbiniche comunemente accettate al tempo, decide di entrare in città ‘a cavallo’, mentre in occasione del pellegrinaggio pasquale ci si poteva arrivare solo a piedi. Quanto stiamo dicendo emerge soprattutto dal resoconto del quarto Vangelo. Anche se il racconto è il più breve di tutti (Gv 12,12-15), è Giovanni a parlare di una grande folla osannante (negli altri Vangeli abbiamo la presenza solo dei pellegrini che accompagnano Gesù), con le palme (nei sinottici si parla solo di rami d’ulivo) e che acclama Gesù come il “re di Israele”.
Anche la citazione che accompagna il racconto di Giovanni, tratta da Zaccaria 9,9 (la stessa che usa Matteo), indica in Gesù il re che entra in città: “Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina” (Gv 12,15). Cosa è successo? Nel piano del racconto di Marco, “Gesù ha finalmente deciso di manifestarsi pubblicamente come Messia”, come il re della pace; “mentre fino a questo momento ha sempre evitato ogni proclamazione messianica, ora ritiene giunto il momento di farlo. L’arrivo a Gerusalemme, centro religioso del giudaismo, è l’occasione da lui scelta per questa manifestazione. Il modo però in cui entra nella città santa deve chiarire ai pellegrini che lo seguono come si deve intendere la sua messianità. Egli non si presenta come un condottiero di guerra, ma come un principe di pace” (Giorgio Jossa).
La rivelazione di Gesù come re e Messia avviene paradossalmente al termine della sua vita: qui e soprattutto alla domanda di Pilato: “Sei tu il re dei Giudei?” (Mc 15,2). Domanda simile sarà fatta dal sommo sacerdote Caifa: “Sei tu il Messia?” (14,61). Le risposte di Gesù, in tutti e due i casi, interpellano la nostra fede. Ma – e qui sta la sfida, che Gesù sia il re del suo popolo, e anche dell’universo – lo si coglie soprattutto dalle parole di scherno dei soldati: “Salve, re dei giudei”, e dalla scritta sulla croce: “Il re dei giudei” (15,26).