Il racconto del lebbroso sanato è il terzo miracolo di Gesù compiutamente raccontato da Marco. Sulla scena all’inizio è solo Gesù: poi compare il lebbroso (“viene” improvvisamente, Mc 1,40); sullo sfondo, nelle parole di Gesù, sono evocati altri personaggi, i sacerdoti e Mosè (v. 44). Gesù e il lebbroso sono due persone una di fronte all’altra. Anche nell’esposizione del dialogo vi è una corrispondenza quasi perfettamente speculare: il lebbroso “supplica” e Gesù “si commuove”; il lebbroso esprime fisicamente la sua preghiera (“in ginocchio”) e Gesù, con un gesto fisico (“stese la mano, lo toccò”) lo purifica. Le parole del lebbroso (“dicendogli: Se vuoi, puoi purificarmi”) sono riprese nell’ordine da Marco: “dice ad esso: Lo voglio, sii purificato”.
Il lebbroso è presentato solo attraverso la sua malattia, non ha un nome: è un lebbroso e ciò lo definisce. Questa parola terribile è ancor più rafforzata nel suo significato mediante la prima azione che il lebbroso compie: come se fosse detto da Marco solo di passaggio, il lebbroso viene da Gesù. Ma noi sappiamo, leggendo il Levitico, che il comportamento di quest’uomo è in aperta violazione delle leggi riguardanti la purità: il lebbroso deve stare segregato, deve portare segnali esteriori che qualifichino la sua malattia contagiosa, deve gridare il pericolo in cui si incorre toccandolo, non deve avvicinarsi a nessuno. La malattia di un lebbroso c’è, e se c’è comporta che chi la soffre sia vivo: ma dagli uomini quest’uomo viene classificato come già morto.
Il Primo Testamento riporta un altro caso di guarigione dalla lebbra, quello di Nàaman il siro (2 Re 5). Lebbroso, questo notabile viene presentato al re di Israele dal re di Aram perché sia curato e guarito. Ricevuta la strana richiesta con una lettera, il re ebreo esclama: “Sono forse Dio per dare la morte o la vita, perché costui mi mandi un lebbroso da guarire?”. Tale enigmatica formula non solo descrive la lebbra come una vera e propria morte, ma riecheggiando Dt 32,39 (dove, in un inno, Dio dice di sé: “Sono io che do la morte e faccio vivere”) relega anche la guarigione dalla stessa ad un’unica remota possibilità: l’intervento divino. Solo Dio può risuscitare i morti, solo Dio può guarire un lebbroso. La reazione di Gesù viene descritta con un’espressione di grande portata: il Signore “si muove a compassione fin nelle viscere”, un verbo che affonda le sue radici nell’Antico Testamento, in un sostrato semitico che è proprio rahamèm, “viscere”. Luca lo usa, ad esempio, per caratterizzare i sentimenti del buon samaritano nei confronti dell’uomo incappato nei briganti (Lc 10,33), o i sentimenti del padre misericordioso verso il figlio perduto e tornato in vita (Lc 15,20).
Paolo parla della “compassione” di Gesù in Fil 1,8. Marco conosce bene il verbo splanchinèzomai e con questo descrive anche la commozione di Gesù di fronte alla folla “come pecore senza pastore” (6,34) o affamata (8,2). Ma fermiamoci un attimo su una questione che potrebbe sembrare troppo specialistica. Infatti, alcuni manoscritti antichi riportano una variante al nostro verbo “commuoversi”, e cioè orghèzomai (“andare in collera”, “infuriarsi”) che descriverebbe addirittura un opposto atteggiamento di Gesù: “Gesù, infuriatosi, stese la mano, lo toccò”. L’ira di Gesù in questo caso sarebbe causata “dall’atrocità della distretta dell’infermo che contraddice all’originaria volontà creatrice di Dio allo stesso modo delle possessioni demoniache” (E. Schweizer, Il Vangelo secondo Marco).
Il movente del gesto di Gesù, allora, non sarebbe solo la compassione, ma anche la sua volontà di lottare contro tutto quello che è contrario a Dio, come l’impurità (manifestata al suo massimo nella lebbra) e la malattia. Ma Gesù non solo si commuove (o si adira): “stende la sua mano” potente, ovvero compie quel gesto che solo Dio, nel Primo Testamento, può fare (“Stenderò dunque la mano e colpirò l’Egitto con tutti i prodigi che opererò in mezzo ad esso, dopo egli vi lascerà andare”: Es 3,20, dove si usa lo stesso verbo che usa Marco), lo tocca e lo purifica. “Sono forse Dio per dare la morte o la vita, perché costui mi mandi un lebbroso da guarire?”, si chiedeva quel re. Ora Gesù compie un gesto che esprime la novità del Regno: “i lebbrosi vengono purificati”, è quindi lui il Messia atteso (Mt 11,5; Lc 7,22). Non solo. Vi è davvero una “sproporzione”, un vero superamento che emerge dal confronto tra il nostro episodio e il racconto della guarigione di Nàaman su cui prima abbiamo aperto una finestra.
“Nàaman, infatti, non viene guarito da un intervento diretto di Eliseo, ma dopo che, dietro suo consiglio, si è bagnato sette volte nel Giordano. Ma, dopo questo consiglio di Eliseo, Nàaman si arrabbia molto, e dice: Ecco, io pensavo: Certo, verrà fuori, si fermerà, invocherà il nome del Signore suo Dio, toccando con la mano la parte malata e sparirà la lebbra (2 Re 5,11). Ciò che Nàaman si aspetta, ma Eliseo non fa, è fatto da Gesù” (B. Van Iersel, Leggere Marco).
L’effetto della guarigione della lebbra nel lebbroso e in Gesù è ancora una volta speculare: il lebbroso, guarito, può liberamente partire e raggiungere altre persone; Gesù, per contro, deve recarsi in luoghi deserti, ‘fuori’, assumendo su di sé la sorte dell’immondo, costretto proprio a stare “solo, fuori dell’accampamento” (Lv 13,46). Gesù sperimenterà davvero questa condizione, sulla croce. Lì Gesù, fuori della porta, patì “per santificare il popolo con il proprio sangue” (Eb 13,12).