La scena del vangelo odierno – l’inizio del ministero pubblico di Gesù, con la chiamata dei primi discepoli – è raccontata da Matteo seguendo fedelmente la traccia del vangelo secondo Marco. Poiché la versione marciana sarà proclamata nelle nostre assemblee proprio l’anno prossimo, nella III domenica del tempo ordinario secondo il ciclo B, quando forse avremo tempo di vederla nel suo complesso, ci dedichiamo invece quest’anno ad una questione che caratterizza proprio il racconto di Matteo. Infatti è solo Matteo che presenta l’arrivo a Cafàrnao di Gesù con la solennità di cui abbiamo ascoltato o letto: “Gesù, (…) lasciata Nazareth, venne ad abitare a Cafàrnao, presso il mare, nel territorio di Zabulon e di Neftali, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia” (Mt 4,13-14). Cafàrnao.
Iniziamo da una annotazione storico-geografica. Il nome Cafàrnao appare frequentemente nel Nuovo Testamento, secondo solo a Gerusalemme. Per Marco, al quale poi anche Matteo e Luca attingono, è il centro dell’attività di Gesù in Galilea. Il primo miracolo di Gesù, la guarigione di un uomo posseduto, avviene proprio nella sinagoga della città (Mc 1,21), e subito dopo tale episodio l’evangelista aggiunge che Gesù era ‘in casa’ a Cafàrnao (cfr. Mc 2,1; 9,33). Ma è Matteo che descrive quel luogo come la città di Gesù: “Salito su una barca, Gesù passò all’altra riva e giunse nella sua città” (Mt 9,1). È lì infatti che, come abbiamo letto sopra, Gesù sceglie di stabilire la sua residenza (“venne ad abitare a Cafàrnao”), che prima era invece a Nazareth (“andò ad abitare in una città chiamata Nazareth, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: Sarà chiamato Nazareno’; Mt 2,23).
Anche il Vangelo di Giovanni è in accordo con l’immagine che viene dai sinottici, circa la centralità di Cafàrnao per il ministero di Gesù in Galilea, e a Cafarnao Gesù si reca subito dopo le nozze di Cana (“Dopo questo fatto, discese a Cafàrnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e si fermarono colà solo pochi giorni”; Gv 2,12), per compiere il miracolo della guarigione del figlio del funzionario reale (Gv 4,46). La città – di cui si persero le tracce a lungo – fu ritrovata in molte sue rovine nel diciannovesimo secolo, e i resti di Tel Hum furono identificati come Cafarnao dal Wilson nel 1866. Dopo furono i Francescani minori della Custodia di Terra Santa ad occuparsi del sito e delle memorie cristiane: gli archeologi padre Corbo e padre Loffreda scavarono dal 1968 al 1985 fino a far emergere la casa di Pietro, sulla quale sorge ora una basilica. Cafarnao è sconosciuta alla Bibbia ebraica, ma è nota alla letteratura rabbinica, quella successiva (o contemporanea) agli scritti del Nuovo Testamento.
Si parla lì di Kfar Nahum, un villaggio di minim, un termine che può significare pagani, gentili. Come l’archeologo J.L. Reed ha notato in un suo recente lavoro (Archeology and the Galilean Jesus, Trinity Press 2002), anche se non siamo in grado di stabilire la grandezza della città, Cafàrnao era comunque un centro “etnico”, abitato anche da stranieri, un luogo con maggiori opportunità di contatto con i gentili di quanto non ne offrisse un piccolo villaggio come Nazareth. Il territorio pagano della Decapoli, inoltre, era appena oltre il Lago sul quale si trova proprio Cafarnao. Una profezia si è avverata. Abbiamo notato che Matteo usa due volte il verbo stabilirsi per Gesù, prima a riguardo di Nazaret, e poi di Cafarnao. Tutte e due le volte l’evangelista associa questa espressione ad una profezia.
Quella di Isaia che leggiamo oggi parla di una Galilea dei pagani: è in questa terra, di stranieri e miscredenti, che Gesù pone la sua casa. Il nome di questa regione (Galilea: “curva dei pagani”) – che deriva dagli insediamenti di stranieri che ebbero luogo dopo la deportazione in Assiria nell’VIII sec. di molti ebrei che lì erano stanziati – per Matteo allora vuole dire molto di più. Gesù non è venuto solo per il suo popolo, ma per ogni popolo della terra, ed è giusto che la predicazione del regno di Dio inizi in un luogo simbolo di multiculturalismo e di apertura: Cafàrnao, appunto. Le profezie quindi non prevedevano una salvezza esclusiva e limitata ad Israele: anche i pagani, anche i gentili e i miscredenti erano pensati da Isaia come i destinatari della liberazione da parte di Dio.
Ecco allora che Matteo unisce nei versetti 4,15-16 le due matrici della sua Chiesa, della comunità per cui scrive il vangelo: quella giudaica e quella pagana. Da una parte scrive che senza il suo Messia anche il popolo di Israele è “immerso nelle tenebre”: è infatti questo il popolo di cui si parla al v. 16 (“il popolo immerso nelle tenebre”, ho laos, termine che in Matteo indica abitualmente gli ebrei. Ma il Messia Gesù non viene solo per questi: anche sui pagani, le “genti” della Galilea, “si è levata una luce”‘. Tra questi pagani ci siamo anche noi, che prima eravamo stranieri, e che ora, popolo di Dio, illuminati dalla Sua parola e uniti nel vincolo del Suo amore, possiamo a nostra volta diventare segno di salvezza e speranza per tutti coloro che ancora sono nelle tenebre (cfr. la seconda Colletta).