Avviandosi verso la fine dell’anno liturgico, la Chiesa propone temi particolari riguardanti la nostra identità storica. Domani e dopodomani si celebra infatti la festa della Chiesa nel suo dinamismo di grazia, ricordando tutti i santi, e cioè i credenti meglio riusciti, proposti alla nostra ammirazione in una lunga galleria di ritratti che si snoda nei vari giorni dell’anno; e i defunti, che, viventi con noi, sono ormai nel mistero della vita in Dio, così come ripetiamo quotidianamente nella celebrazione della messa: “Ricordati, Signore, di tutti i defunti dei quali tu solo hai conosciuto la fede. Ammettili a godere la luce del tuo volto e la pienezza di vita nella risurrezione”. E questo vale per tutti i defunti, credenti o non credenti, delle diverse opzioni religiose, quelli che hanno cercato la via del bene e quelli che hanno sbagliato tutto: la speranza in ogni caso rimane.
Non sta a noi giudicare: il giudizio è solo di Dio, che conosce fino in fondo la storia e la responsabilità di ognuno. È importante la prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, che funge da cornice per questa festa della Chiesa globale: “Tu, Signore, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini aspettando il loro pentimento” (Sap 11,23), ed anzi “sei indulgente con tutte le cose perché sono tue, Signore, amante della vita” (Sap 11,26). I due poli di questa preghiera inneggiante alla vita di coloro che sono già passati nei “cieli nuovi e nella terra nuova” sono il pentimento dell’uomo e l’indulgenza di Dio, di cui tutti hanno bisogno, or più or meno. Ne hanno avuto bisogno i santi, anche se il pentimento per le lievi sbavature di peccato è stato in loro sovrabbondante; ne hanno assoluto bisogno i peccatori, nei quali il cammino verso la santità è stato più faticoso e rischioso. Ne hanno bisogno i cercatori di Dio, che sono andati avanti “a tentoni”; ne hanno bisogno i contestatori e i negatori di Dio, che possiamo solo affidare alla sua misericordia. Ne abbiamo urgente bisogno noi, che camminiamo su un terreno molto accidentato, aspettando la venuta del Signore e la nostra riunione con Lui.
E tuttavia, ci dice l’apostolo Paolo, non dobbiamo farci confondere da pseudo-profeti che turbano le coscienze con le loro previsioni catastrofiche. Il Signore verrà, ne siamo certi, ma l’attesa non deve farci fuggire dalla realtà e dalla nostra responsabilità per questo mondo, che sarà anch’esso toccato dall’irraggiamento della resurrezione. La storia di Zaccheo, che l’evangelo di oggi ci offre, ci rassicura perché è una storia di pentimento e di indulgenza: il pentimento di Zaccheo, che riconosce il suo peccato e assume precisi impegni di giustizia, e l’indulgenza di Gesù che lo ha cercato tra il fogliame del sicomoro ed ha accolto il suo invito a pranzo, svelando anche il motivo della sua presenza nella terra degli uomini: “È venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”, anche se si tratta di peccatori odiosi come un esoso esattore di imposte. Ma c’è grazia per tutti, se non la rifiutiamo.
Nella storia di Zaccheo troviamo anche la risposta a quell’interrogativo che in tutti e tre i sinottici gli apostoli si sono posti dopo aver sentito da Gesù la difficoltà per un ricco di entrare nel regno dei cieli: “Chi potrà mai salvarsi?” (Mt 14,25; Mc 10, 26; Lc 18,26). La risposta di Gesù è sempre la stessa: “L’impossibile dell’uomo è il possibile di Dio”: a Lui è possibile anche trasformare un cuore di pietra in un cuore di carne, che sappia commuoversi dinanzi ai tanti bisogni dei diseredati. Il che fa capire anche quanto sia tenace il dio mammona, la cupidigia del potere, con la prospettiva della demiurgia. Se con Zaccheo è stato possibile un radicale ravvedimento, una vera rivoluzione dal male al bene, e le sue ricchezze defraudate sono ritornate ai legittimi padroni, i poveri, allora c’è speranza per tutti. E anche questo mostro del Mammona che incombe sulla nostra terra potrà essere ridimensionato e vinto.