Se questa parabola non l’avesse raccontata Gesù, nessuno avrebbe osato inventarla, perché a prima vista appare scandalosa. Sembra quasi che Gesù proponga come esempio un autentico truffatore, un furbo doppiamente disonesto: prima di tutto perché è stato un amministratore (in greco oikònomos) incapace e ladro, tanto che il padrone aveva deciso di licenziarlo; poi perché, prima di lasciare l’incarico, ha contraffatto le fatture per assicurarsi un avvenire sicuro. È chiaro che siamo davanti ad un uomo senza scrupoli; e meraviglia che il padrone gli abbia lasciato ancora per un po’ la possibilità di derubarlo. L’episodio non meraviglia più di tanto noi che siamo abituati ormai a truffe di ben altre proporzioni: la corruzione stimmatizzatala Gesù è cronaca di tutti i giorni… In più noi abbiamo l’aggravante della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta che riempiono le cronache dei nostri giornali e la televisione. Le tangenti, il pizzo, l’emissione di fatture false sono per noi pane quotidiano. Il male è che ci abbiamo fatto l’abitudine e rischiamo di caderci dentro.
Di questa corruzione parla Gesù per mettere in guardia contro la scaltrezza umana, sempre così ricca di inventiva nel progettare il male. Egli la paragona alla mancanza di fantasia dei credenti nel fare il bene. L’ambiente descritto è quello palestinese del tempo. Alcuni latifondisti, che spesso vivevano all’estero, si erano accaparrati grandi poderi, dati poi in gestione ad amministratori locali. Questi facevano il bello e cattivo tempo nel gestire enormi capitali difficilmente controllabili, perché non esisteva una vera contabilità e l’amministrazione era di tipo fiduciario. Uno di questi fattori è stato accusato di corruzione e viene licenziato. L’interessato non pensa nemmeno di cercarsi una nuova amministrazione da gestire, perché ormai si sente squalificato. Dopo un breve monologo, dove formula varie ipotesi, decide di operare un’ultima truffa ai danni del suo padrone, che ha commesso l’ingenuità di lasciarlo ancora per un po’ al suo posto. Modifica le cifre contabili e si crea così amici e complici. Nel racconto tutto è costruito ad arte per colpire gli ascoltatori, scioccati da questa storia inverosimile e paradossale.
La conclusione appare sorprendente nel testo originale greco: “Il Signore (Kyrios = Gesù) lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”. Gesù non loda la truffa in sé, che rimane un atto stimmatizzato come disonesto, alla pari del fattore. Gesù invita a guardare con ammirazione l’intraprendenza che ha usato quel fattore disonesto per cavarsi da una situazione disperata. È un ‘figlio di questo mondo’ che si è regolato secondo i criteri amorali in uso nella società secolarizzata senza Dio. Egli mostra di ignorare il comandamento divino che vieta di rubare e di comportarsi con disonestà (Es 20,15). È contrapposto ai “figli della luce”, che sono i seguaci di Gesù, chiamati ad essere “luce del mondo” con la loro condotta morale ineccepibile, nota a tutti (Mt 5,14-16). Peccato però, lamenta Gesù, che spesso siano indifferenti e pigri davanti alla ricchezza del Vangelo, mentre dovrebbero essere interessati e attivi.
I figli della luce sono rappresentati dall'”amministratore (ancora oikònomos) fedele e saggio che il Signore pone a capo della sua servitù” e che Gesù, in una parabola precedente, chiama ‘beato’, perché ha svolto onestamente e fedelmente il suo compito (Lc 121,42-44). Appare chiara l’intenzione di confrontare le due figure, chiamate con lo stesso nome e poste ambedue ad amministrare i beni del padrone. Il secondo però, a differenza del primo, lo fa con scrupolosa onestà e fedeltà. Ambedue sono lodati, ma per motivi del tutto diversi. Il primo è lodato per la sua scaltrezza e intraprendenza, il secondo per la sua scrupolosa fedeltà e correttezza. Il primo è cacciato perché disonesto, il secondo è promosso perché onesto. Gesù con la nostra parabola incita ogni suo seguace, divenuto amministratore dei beni di Dio, ad essere più attivo, più coraggioso e più scaltro dei figli di questo mondo.
È un rimprovero per la nostra mancanza di entusiasmo e pigrizia nel credere e nell’agire. Noi cristiani dobbiamo rimproverarci tanti peccati di omissione. Gesù aggiunge alla parabola una serie di suggerimenti adatti stimolare i cristiani nella via dell’agire cristiano. Il primo detto, ricalcato sulla parabola, esorta ad essere attivi e creativi nella carità verso i poveri, che è l’unico capitale che rende bene nella banca di Dio. È un’esortazione che ha dato vita a quella fioritura tanto ricca e varia di opere assistenziali in campo religioso e sociale, che è fiore all’occhiello della storia della Chiesa. In questo settore la parabola di Gesù ha funzionato, il che non è poco. I figli della luce, in questo settore, sono stati più attivi e creativi dei figli del mondo. Hanno fatto da traino anche per l’azione dello Stato, almeno in capo ospedaliero e scolastico. C’è una seconda esortazione che riguarda ognuno di noi nella vita di ogni giorno: invita alla fedeltà nelle piccole cose, che sono come l’orditura di fondo della vita quotidiana. Se non c’è questa trama lavorata accuratamente, la tessitura della vita non regge.
La fedeltà a Dio si vede nelle piccole cose: “Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto”. Chi non ha saputo amministrare con scrupolo i beni della vita terrena, che hanno un valore relativo, non potrà gestire i beni della vita eterna, che sono grandi e imperituri. Non merita fiducia. La terza esortazione esclude ogni compromesso nelle scelte morali tra i due antagonisti della vita umana: Dio e il denaro. Il detto è perentorio: “Nessun servo può servire due padroni”: il denaro (chiamato col termine ebraico mammona), spesso frutto di ingiustizia o causa d’ingiustizia, e Dio, da amare sopra ogni cosa. L’uso della ricchezza è un test per verificare l’amore di Dio. Le due realtà sono in concorrenza fra loro per la conquista del cuore dell’uomo, e proprio nel cuore umano possono risultare incompatibili. La scelta, come sempre, è nelle nostre mani.