Una inutile, anzi, dannosa reazione “di pancia”, l’ultima risoluzione del Parlamento europeo contro la decisione della Corte suprema Usa di cancellare la sentenza “Roe vs. Wade” che ha garantito il diritto all’aborto per cinquant’anni. Inutile perché non è vincolante, ma soprattutto non ha realistiche possibilità di essere concretizzata.
Per inserire il “diritto all’aborto sicuro e legale” nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, infatti, è necessaria l’unanimità degli Stati membri, i quali hanno posizioni assai diverse, ma in comune hanno l’assenza di tale “diritto” nelle leggi che pure consentono l’interruzione volontaria di gravidanza. Non è quindi pensabile che l’Ue possa perorare “la sua inclusione nella Dichiarazione universale dei diritti umani ” – altra richiesta del testo – e tanto meno ci si può illudere che il Congresso Usa “approvi una legge che protegga l’aborto a livello federale” solo perché lo chiede l’Ue.
L’obiettivo pienamente raggiunto è invece quello di radicalizzare ancora di più lo scontro sull’aborto, e in questo senso la risoluzione è dannosa: la conta del Parlamento ha prodotto due schieramenti contrapposti, per usare tale falso “diritto” strumentalmente come bandiera politica e segno di riconoscimento, evitando di affrontare i veri problemi.
Falso diritto, perché non può esserci un diritto a sopprimere vite altrui, di qualcuno che – tra l’altro – non può essere chiamato a dire la sua. Neppure i movimenti per la libertà di abortire, pur battendosi per avere leggi che lo consentissero, rivendicavano l’aborto come un diritto. Ricordiamo ad esempio che, quando Giuliano Ferrara lanciò la sua lista no-aborto, Ida Dominijanni rispose sul Manifesto con un lungo articolo, in cui tra l’altro spiegava…
La traduzione del problema dell’aborto in termini di diritto (da ridurre) è tutta loro oggi, così come fu dei radicali (per conquistarlo) negli anni ’70. Ma sfidiamo i Ferrara, i Merlo e quant’altri a trovare nella letteratura femminista in materia un solo riferimento all’aborto come diritto.
Disgrazia, lapsus, incidente, effetto dello squilibrio fra sessualità maschile e sessualità femminile: l’aborto è da sempre, nel vocabolario femminista, un’eccedenza irriducibile al linguaggio del diritto e dei diritti. Non credere di avere dei diritti si intitola, significativamente, il volume della Libreria delle donne di Milano che ricostruisce questa eccedenza dell’aborto dal linguaggio del diritto e dei diritti. Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso si intitolava un famoso documento del ’75 che spostava il fuoco dalla richiesta di una legge all’analisi della sessualità e del desiderio (o non desiderio) di maternità, sostenendo fra l’altro: “L’aborto di massa negli ospedali non rappresenta una conquista di civiltà perché è una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza e colpevolizza ulteriormente il corpo della donna”.
“Mentre chiediamo l’abrogazione di tutte le leggi punitive dell’aborto e la realizzazione di strutture dove sostenerlo in condizioni ottimali, ci rifiutiamo di considerare questo problema separatamente da tutti gli altri, sessualità, maternità, socializzazione dei bambini” scriveva un altro testo del ’73.
E sono di Carla Lonzi le seguenti parole del 1971: “L’uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire. Ma la donna si chiede: per il piacere di chi sono rimasta incinta? Per il piacere di chi sto abortendo?”. Come mai questa storia e questa elaborazione restino sistematicamente fuori dal campo della discussione pubblica, tradotte e tradite nello scontro violento e riduttivo “diritto all’aborto sì / diritto all’aborto no”, è questione da interrogare. (fine della citazione)
Parafrasando le parole di Carla Lonzi, potremmo chiederci: “Per l’interesse di chi stiamo parlando di diritto all’aborto?”. Sicuramente non delle donne, innanzitutto. Adesso vediamo la nostra negazione quotidiana perfino nel lessico, che non ci vuole neppure nominare – “persone che mestruano”, una delle alternative più popolari – e c’è addirittura difficoltà a rispondere alla domanda “cosa è una donna?”, come mostra il surreale documentario dell’americano Matt Walsh.
Diciamo quindi basta alle contrapposizioni ideologiche, utili solamente in pessime e scontate campagne elettorali, quelle che allontanano dalla politica. Cerchiamo invece di ripartire dai fondamentali, ad esempio: quale significato e quale valore ha essere donne, essere madri al nostro tempo?