Dopo l’arresto dell’imam della moschea di Ponte Felcino, dopo lo stupore per una realtà che nessuno dei vicini di casa avrebbe mai sospettato, arrivano le domande. Gli interrogativi sul futuro, sulla possibilità reale di una integrazione che si pensava possibile ma ora è messa in dubbio. La gente del quartiere perugino non si preoccupa più tanto del terrorismo: di quello si stanno occupando le Forze dell’ordine. Ciò che resta sulle loro spalle, o meglio sulle spalle della comunità locale, istituzioni comprese, è il quotidiano convivere, sul quale è calato il dubbio pesante della diffidenza.
Gino Puletti, direttore del periodico felciniano Il Ponte passa in rassegna questi ultimi 6-7 anni, a tanto risale il formarsi della comunità magrebina con le famiglie che trovano in affitto le case della parte vecchia della frazione. Lì si concentra la loro presenza tanto che i pochi perugini rimasti al centro possono dire “oggi ha sentito parla’ solo straniero”. “Con le associazioni abbiamo cercato occasioni per far incontrare la gente, per esempio i genitori dei bambini che frequentano le scuole. Non ci sono mai stati grossi problemi, anche se, ancora per fare un esempio, a questi incontri raramente partecipavano le mamme dei bambini”. A Ponte Felcino, quartiere di 6 mila abitanti, il parroco don Alberto Veschini stima possano esserci 1.500 stranieri, due terzi dei quali musulmani.
Alla Caritas parrocchiale, aperta due volte al mese o su richiesta per rispondere a delle necessità, sono pochissime le donne islamiche che vi si rivolgono. Non è, dunque, questo un punto di incontro o di conoscenza, conferma Elena Giovagnotti. Con gli altri gruppi quali gli albanesi, arrivati nei primi anni ’90, o gli africani, i rapporti sono più facili, ci sono maggiori punti di contatto. “Aspettiamo segnali dalle istituzioni, dai politici locali” commenta Puletti, che tra le questioni da affrontare pone anche i criteri per la formazione delle graduatorie per l’assegnazione delle case popolari o degli asili nido, accanto a iniziative efficaci che possano davvero aiutare a superare la diffidenza che questa vicenda ha alimentato.
“Il problema – conclude – è l’educazione dei figli, che dovranno domani convivere”. Cosa vuol dire integrarsi? “Bisogna far incontrare le persone” dice Stella Cerasa, responsabile del Centro d’ascolto Caritas diocesano. “Finchè l’integrazione è vista come iniziative di vario genere, non si va molto lontano”. Le feste etniche o i dibattiti sono utili ma ciò che occorre davvero sono le politiche di “buon vicinato”, ovvero incontrarsi, conoscersi, imparare a aiutarsi. E questo serve anche agli italiani e non solo nel rapporto con gli immigrati. Di iniziative per la riscoperta del buon vicinato si era fatto promotore, l’Ufficio di cittadinanza di Madonna Alta, con risultati incoraggianti. E per la Chiesa diventa un “obbligo”‘, perché “non si incontrano le masse ma le persone”, e perché nell’incontro, aggiunge Stella, “quando ci si presenta senza nascondere la nostra identità, si scopre anche che la nostra fede non è un ostacolo al dialogo o alla comprensione, anzi”.