Siamo arrivati alla Pasqua dopo aver seguito Gesù nei suoi ultimi giorni di vita: al cenacolo, nell’orto degli Ulivi e il giorno dopo lo abbiamo trovato in croce, solo e nudo, le guardie lo avevano spogliato della tunica; in verità lui stesso si era già spogliato della vita. Davvero ha dato tutto se stesso per la nostra salvezza. Il sabato è stato triste, un giorno vuoto anche per noi. Gesù stava oltre quella pietra pesante. Eppure, anche senza vita, ha continuato a donarla “scendendo agli inferi”, ossia nel punto più basso possibile: ha voluto portare sino al limite estremo la sua solidarietà con gli uomini, fino ad Adamo, come ci ricorda la tradizione d’Oriente.
Il Vangelo di Pasqua parte proprio da questo estremo limite, dalla notte buia. Scrive l’evangelista Giovanni che “era ancora buio” quando Maria di Magdala si recò al sepolcro. Era buio fuori, ma soprattutto dentro il cuore di quella donna, il buio per la perdita dell’unico che l’aveva capita: non solo le aveva detto cosa aveva nel cuore, soprattutto l’aveva liberata da ciò che l’opprimeva più di ogni altra cosa (scrive Marco che era stata liberata da sette demoni). Con il cuore triste Maria si recava al sepolcro. Forse ricordava i giorni precedenti la passione, quando gli asciugava i piedi dopo averglieli bagnati con unguento prezioso, e gli anni, pochi ma intensi, passati con quel profeta. Con Gesù l’amicizia è sempre prendente, si potrebbe dire che quest’uomo non lo si può seguire da lontano, come ha fatto Pietro in questi giorni. Arriva il momento della resa dei conti e quindi della scelta di un rapporto definitivo.
L’amicizia di Gesù è di quella specie che porta a considerare gli altri più di se stessi: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 12), aveva detto Gesù. Maria di Magdala lo constata di persona quel mattino, quand’è ancora buio. Il suo amico è morto perché ha voluto bene a lei e a tutti i discepoli, Giuda compreso. Appena giunta al sepolcro ella vede che la pietra posta sull’ingresso, una lastra pesante come ogni morte e ogni distacco, è stata ribaltata. Neppure entra. Corre subito da Pietro e da Giovanni: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro!”, grida, trafelata.
Neanche da morto pensa, lo vogliono. E aggiunge con tristezza: “Non sappiamo dove l’abbiano messo”. La tristezza di Maria per la perdita del Signore, anche solo del suo corpo morto, è uno schiaffo alla nostra freddezza e alla nostra dimenticanza di Gesù vivo. Oggi, questa donna è un altro esempio per tutti i credenti, per ciascuno di noi. Solo con i suoi sentimenti nel cuore è possibile incontrare il Signore risorto. E’ lei e la sua disperazione, infatti, che muovono Pietro e l’altro discepolo che Gesù amava. Essi corrono immediatamente verso il sepolcro vuoto; dopo aver iniziato assieme a seguire il Signore durante la passione, sebbene da lontano (Gv 18, 15-16), ora si trovano a “correre entrambi” per non stargli lontano.
È una corsa che esprime bene l’ansia di ogni discepolo, direi di ogni comunità, che cerca il Signore. Anche noi, forse, dobbiamo riprendere a correre. La nostra andatura è diventata troppo lenta, forse appesantita dall’amore per noi stessi, dalla paura di scivolare e di perdere qualcosa di nostro, dal timore di dover abbandonare abitudini ormai sclerotiche, dalla pigrizia di un realismo triste che non fa sperare più nulla, dalla rassegnazione di fronte alla guerra e alla violenza che sembrano inesorabili. Bisogna riprovare a correre, lasciare quel cenacolo dalle porte chiuse e andare verso il Signore. Sì, la Pasqua è anche fretta. Giunse per primo alla tomba il discepolo dell’amore: l’amore fa correre più veloci. Ma anche il passo più lento di Pietro lo portò sulla soglia della tomba; ed ambedue entrarono. Pietro per primo, e osservò un ordine perfetto: le bende stavano al loro posto come svuotate del corpo di Gesù e il sudario “ripiegato in un angolo a parte”.
Non c’era stata né manomissione né trafugamento: Gesù si era come liberato da solo. Non era stato necessario sciogliere le bende come per Lazzaro. Le bende erano lì, come svuotate. Anche l’altro discepolo entrò e “vide” la stessa scena: “Vide e credette”, nota il Vangelo. Si erano trovati davanti ai segni della risurrezione e si lasciarono toccare il cuore. Fino ad allora infatti – prosegue l’evangelista – “non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli doveva risuscitare dai morti”. Questa è spesso la nostra vita: una vita senza resurrezione e senza Pasqua, rinchiusa nella tristezza delle proprie abitudini e della propria rassegnazione. La Pasqua è venuta, la pietra pesante è stata rovesciata e il sepolcro si è aperto. Il Signore ha vinto la morte e vive per sempre. Non possiamo più starcene chiusi come se il Vangelo della resurrezione non ci sia stato comunicato. Il Vangelo è resurrezione, è rinascita a vita nuova. E va gridato sui tetti, va comunicato nei cuori perché si aprano al Signore.
Questa Pasqua non può passare invano; non può essere un rito che più o meno stancamente si ripete uguale ogni anno; essa deve cambiare il cuore e la vita di ogni discepolo, di ogni comunità cristiana, del mondo intero. Si tratta di spalancare le porte al risorto che viene in mezzo a noi come leggeremo nei giorni prossimi durante le apparizioni ai discepoli. Egli deposita nei cuori degli uomini il soffio della resurrezione, l’energia della pace, la potenza dello Spirito che rinnova. Scrive l’apostolo: “Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3). La nostra vita è come coinvolta in Gesù risorto e resa partecipe della sua vittoria sulla morte e sul male. Assieme al risorto entrerà nei nostri cuori il mondo intero con le sue attese e i suoi dolori. Entrerà questo mondo d’inizio millennio ferito dalla guerra e da tanta violenza ma anche percorso da un grande anelito di pace.