La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori”: questo messaggio paolino ci rafforza nella convinzione che tutto possiamo attendere dal Signore, l’Unico che può appagare la nostra sete di amore e di verità. E la ‘sete’ è la questione emergente nelle letture di questa III domenica di Quaresima. Ascoltiamo infatti: “Il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua”, quindi mormorò contro Mosè: “Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto per morire di sete?”. Il Signore rispose facendo operare un prodigio a Mosè e il popolo si dissetò. Il Vangelo di Giovanni ci presenta invece una donna intenta ad attingere acqua presso il pozzo di Giacobbe, dove già si trova Gesù. lì seduto perché “affaticato per il viaggio” e ha sete e dice alla donna samaritana di dargli da bere. Sia Gesù che la samaritana necessitano di acqua e si trovano entrambi presso un pozzo. Niente di più scontato che attingere subito! Ma c’è qualcosa che ‘stona’: i giudei non possono contaminarsi con il vasellame dei samaritani. Anzi, risulta già strano che Gesù e i discepoli facciano sosta in territorio samaritano. Tra giudei e samaritani vi erano ostilità già dai tempi della caduta del Regno del Nord (722 a.C.) aggravate dal rifiuto da parte dei samaritani di adorare il Signore a Gerusalemme e dal loro boicottaggio, dopo l’esilio babilonese, contro la ricostruzione di Gerusalemme. In più i samaritani erano accusati di aver introdotto culti idolatrici assimilati da 5 popolazioni con cui avevano stretto alleanza (2Re 17,24). Questi sono alcuni dei motivi per cui era doveroso tenersi alla larga e, poiché Gesù si trovava nella valle del Giordano (Gv 3,22) e doveva dirigersi verso la Galilea, non era affatto necessario passare per la Samaria; eppure Gesù vi passa e vi sosta. È pure insolito che una donna si recasse al pozzo a mezzogiorno, quando la consuetudine voleva che ci si andasse al mattino presto. Tutto questo prelude a un colpo di scena: il dialogo dei due, da una cosa ‘spicciola’ quale è la sete, si eleva alla trattazione di questioni dottrinali: la verità, il culto e il Messia. Alla proposta di Gesù “chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno”, la donna riconosce la grandezza dell’uomo che ha di fronte, tanto da chiamarlo non più ‘giudeo’, ma “Signore” e gli chiede di donarle quell’acqua “che zampilla per la vita eterna”. L’autore intenzionalmente usa il verbo greco hallesthai (zampillare), lo stesso usato dalla versione greca dei Settanta per indicare il ‘saltellare’ dello Spirito in personaggi carismatici quali Sansone, Saul e David.
L’acqua viva è quindi identificata dall’evangelista con lo Spirito di verità di cui ha sete la donna. La verità è Cristo che ha davanti, la verità è quella che viene detta a lei sulla sua vita. Gesù le svela infatti di aver avuto ‘cinque mariti’ e, considerando che la tradizione del tempo permetteva fino a tre matrimoni (StB, II, 437), la donna non godeva probabilmente di ottima reputazione. Ma proprio a lei Gesù indica quale debba essere il vero culto da tributare a Dio; e la donna dimostra di reggere la conversazione perché fa allusione al ‘Pentateuco samaritano’ (Dt 27,4) chiedendo conferma del vero luogo dove adorare Dio. Gesù appaga anche questa sua sete di conoscenza, perché i veri adoratori sono coloro che “adoreranno il Padre in spirito e verità”; e a lei, donna, samaritana e in stato di immoralità per la Legge, rivela la sua vera identità: è il Messia. La conseguenza è che, dopo aver fatto questo incontro personale con Gesù, la donna torna in città e riferisce quanto le è accaduto. I samaritani si dirigono quindi da Gesù che, su loro invito, rimane per due giorni in quel luogo. Lo ascoltano, gli credono e riconoscono che è “veramente il salvatore del mondo”. Gesù ha fatto il primo passo, è andato nelle ‘periferie’ e ne ha condiviso per due giorni la familiarità. La donna soffriva di sete di verità e, seppure appartenente a un popolo ben preciso, si è dimostrata aperta ad andare oltre gli schemi prefissi accogliendo la verità su se stessa e su Dio. È una donna che abbandona l’idolatria, ‘sposa’ la nuova fede proprio nei pressi di un pozzo – luogo dove la prassi voleva che si combinassero i matrimoni (Giacobbe, Isacco), – e la sua testimonianza è talmente significativa che “molti cedettero”. E noi? Abbiamo ‘sete’? Se la proviamo, il primo gradino da salire è lasciare che il Signore entri nella nostra vita. La samaritana ha permesso a Gesù di riconciliarla con il suo passato; solo dopo ha riconosciuto Gesù come il Messia salvatore. La sua gioia e trasformazione è stata così improvvisa da abbandonare l’anfora lì presso il pozzo e correre dai suoi, perché ormai la sua inquietudine di ricerca si era placata. Gesù ci viene incontro ogni qual volta lo cerchiamo con umiltà e sincerità, ma ci invita a “lasciare la nostra anfora, simbolo di tutto ciò apparentemente è importante, ma che perde valore di fronte all’amore di Dio” (Papa Francesco, 23.03.2014). Qual è allora l’“anfora” di cui dobbiamo liberarci? Una volta individuata, abbandoniamola perché Lui stesso ha sete di noi (come ha detto anche in croce, Gv 19,28). Dice infatti il Prefazio della liturgia: “Egli chiese alla Samaritana l’acqua da bere, per farle il grande dono della fede, e di questa fede ebbe sete così ardente da accendere in lei la fiamma del tuo amore”.