Don Gelmini e la Chiesa

Nella vicenda del noto sacerdote emerge, sul piano ecclesiale, un atteggiamento un po' discutibile

Ho letto con molta pena, in questi giorni, le dichiarazioni di don Gelmini sulla sua posizione all’interno della Chiesa, sul Vescovo di Terni, sulla Santa Sede; pena non per il Vescovo o per il Papa, ovviamente, ma per lui. Se infatti i giornali hanno riportato fedelmente le sue parole, bisogna dire che ci troviamo di fronte a un’incredibile carenza di cultura teologica e ignoranza di elementari insegnamenti del Concilio Vaticano II. Dispiace dover dire questo di un fratello di fede, sacerdote per giunta, che per libera scelta e per doverosa missione dovrebbe essere maestro di dottrina e guida sicura del popolo di Dio, oltre che promotore dell’unità ecclesiale. Ma non si può tacere. Perché l’unità della Chiesa è un valore troppo grande per lasciare che venga impunemente lacerato, e perché gli insegnamenti del Concilio sono così essenziali per la vita della Chiesa che qualsiasi tentativo di negarli o stravolgerli costituisce un gravissimo attentato contro la sua integrità. Non entro ovviamente nel merito delle questioni giudiziarie che lo riguardano; esprimo anzi la vivissima speranza che possa quanto prima risultare del tutto innocente. Parlo solo degli aspetti ecclesiali della vicenda, come risultano dalle sue pubbliche dichiarazioni. Quando ad esempio afferma di aver chiesto la ‘riduzione allo stato laicale’, don Gelmini utilizza un’espressione direi pre-conciliare, estranea al vigente Diritto canonico e perfino infelice dato che lo ‘stato laicale’ non è una sorta di’ lastrico o di marciapiede ove va a finire chi non esercita più il ministero sacro. È invece, come insegna il Concilio, la nobile condizione esistenziale della stragrande maggioranza dei battezzati e sicura via di santità. Ma questo è il meno. Ciò che più sconcerta è che per lui ‘il vescovo di Terni è zero’. ‘Io – afferma don Gelmini – non sono un suo prete, appartengo alla Chiesa greco-cattolico-melchita e non alla diocesi’. Di fronte a queste assurdità teologiche, il meno che si possa dire è che egli non conosca né la natura della Chiesa diocesana né il ruolo del suo vescovo; che non è un funzionario o un soprammobile di lusso ma, come insegna il Concilio, ‘vicario di Cristo’, capo e guida del popolo di Dio. Lo stesso Concilio ricorda che ‘i presbiteri costituiscono un unico presbiterio riunito sotto l’autorità del vescovo’ (AG, 20). Agli inizi del II secolo sant’Ignazio di Antiochia scriveva: ‘Procurate di operare in perfetta armonia con il volere del vostro vescovo, come le corde alla cetra’. Ogni prete è tale perché ha ricevuto l’ordine sacro dal vescovo ed è legittimato ad operare pastoralmente solo se è in comunione con il vescovo. E se ci dovesse chiedere: quale vescovo?, la risposta è una sola: il vescovo della diocesi entro la quale uno svolge il proprio ministero pastorale, qualunque esso sia. Non possono esservi deroghe o appelli ad altre istanze. Un prete, qualsiasi prete, può svolgere il suo ministero soltanto se è in rapporto di comunione con il vescovo del luogo. E questo vale per tutti, anche per i preti incardinati a qualche istituto religioso o ad altra diocesi. ‘Essi sono da considerare come appartenenti al clero diocesano’, insegna ancora il Concilio (cf AG, 34). Ho ritenuto opportune queste brevi annotazioni, al di là dello specifico caso cui si riferiscono. Casi analoghi sono sotto gli occhi di tutti, enfatizzati anche dal protagonismo televisivo di qualche personaggio. Evidentemente anche l’insuccesso, come ha scritto qualcuno, può dare alla testa.

AUTORE: d. Vittorio Peri