Noi parliamo tanto di Dio, ma non lo conosciamo; ce lo dice anche Giovanni: “Dio, nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18). Le parole e i concetti che usiamo, anche bellissimi (Dio è bontà, verità, bellezza, vita…), fanno parte dei nostri linguaggi storici fatti di tempo e di spazio, che non potranno però mai definire Dio, che è trascendente, totalmente indicibile, ineffabile, perché è il “Tutt’altro da noi”. Dio stesso però si è fatto conoscere in Gesù di Nazareth, sua Parola diventata carne, uno di noi, che ci ha parlato di Dio come il Padre (abbà), come l’Amore (agàpe), come il Santo (qadòsh, hàghios). Pure Giovanni dice che “Dio, nessuno lo ha mai visto; il Figlio unigenito, che è Dio, ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Nei lontani tempi della storia sacra si chiamò semplicemente “Io Sono”.
La prima lettura ci parla delle circostanze di questa auto-definizione: la svelò a Mosè, sul monte Oreb, da un roveto ardente. Fu la semplice constatazione dell’Essere che esiste: “Io sono colui che sono”. E Mosè, per mostrare la sua fede e la volontà di camminare alla sua presenza, si scalzò e si velò. È poco per chi vuol penetrare il Mistero, ma è tutto per chi vuol cercare di rendersi conto perché anche noi ci siamo, come ci furono Abramo, Isacco, Giacobbe, e “Io Sono” fu il loro ed è il nostro Dio. Ce lo ripete l’apostolo Paolo scrivendone alla comunità di Corinto: i nostri Padri “furono tutti sotto la nube” protettrice di Dio nel loro cammino verso la libertà, tutti mangiarono la manna e bevvero alla roccia. Paolo, leggendo gli eventi del passato con l’occhio del presente, li interpreta come profezia del presente, e quindi l’acqua è quella del battesimo che monda dal peccato, sgorgando dalla roccia spirituale che è Cristo; e la manna è il corpo e il sangue di Cristo che nutre la nostra fame di Dio nel viaggio verso la terra promessa, il Regno.
Di qui la necessità di camminare nella fedeltà alla Parola di Dio, senza mormorazioni di scontentezza come avvenne per la maggioranza dei liberati, “i quali furono poi sterminati nel deserto”. Non basta aver raggiunto la libertà, bisogna poi conservarla. E la libertà interiore è più difficile a conservarsi della libertà politica. È sempre il Maligno, la “scimmia di Dio”, che tenta di dominarci con l’idolo del momento, e spesso ci riesce. Non facciamoci distrarre e dominare dalle idolatrie del momento, più suggestive ancora quando diventano di moda; sono sempre tentazioni umane, dice Paolo, “e Dio non permetterà che siate tentati oltre le forze, ma con la tentazione darà anche il mezzo per sopportarla” (1 Cor 10,13). Dio c’è, e chiede la nostra conversione sempre, anche nei fatti luttuosi di cronaca nera come quelli di cui parla il Vangelo, e che i benpensanti intendevano come punizione dei peccati di coloro che erano morti e quindi loro – i benpensanti – si sentivano a posto. Gesù rifiuta questa interpretazione palesemente egoistica, e ribadisce il dovere della conversione per tutti.
E questo anche per non correre il rischio di essere rimossi come il fico infruttifero della parabola. Quanto al mistero del “dolore innocente”, è problema che solo alla luce dell’assassinio di Gesù, il Giusto per eccellenza, può trovare una chiave di soluzione. La Quaresima comunque è questo tempo di prova che Dio ci concede, in attesa che la nostra vita porti quei frutti di conversione che Dio s’attende, e che ci consentono di conoscere qualcosa di più di Dio, passando dapprima per la via della preghiera contemplativa, che Gesù ci ha illustrato con l’esempio e l’insegnamento: “Occorre vegliare e pregare in ogni momento” (Lc 21,36; Mc 13,33), “incessantemente” (Ef 6,18). Scriveva sant’Agostino: “Leva la tua voce! Per ascoltare in profondità la tua anima c’è sempre Qualcuno, Dio!”.