Recentemente il terremoto che ha sconvolto le regioni del centro Italia ha riportato la questione in primo piano. In un articolo pubblicato su Avvenire del 9 novembre il biblista padre Giulio Michelini ha spiegato che si deve leggere la Bibbia, e in particolare il Vangelo, in quei passaggi in cui parla di terremoto, come immagine che esprime la manifestazione di Dio agli uomini, e non il Suo castigo.
Per approfondire il tema abbiamo chiesto a don Romano Piccinelli, docente di Teologia fondamentale e preside dell’Istituto teologico di Assisi, di approfondire il tema della sofferenza, del male, sia esso causato dalle forze della natura sia causato dall’uomo.
Il terremoto come castigo di Dio per i nostri peccati… Don Piccinelli, è questo che insegna la Chiesa?
“Mi lasci dire a chiare lettere che Dio non punisce il peccatore e non castiga. Mai! Al contrario, Dio – così come ce l’ha svelato Gesù – cerca con ostinazione tutto ciò che è perduto ‘finché non lo trova’ ( Lc 15,4.8). Invita alla conversione ( Lc 13,1-5); lo fa in maniera pressante, perché in essa consiste la nostra realizzazione, ma estende su tutti la Sua misericordia. Il vero dramma della vita è presumere di non averne bisogno, oppure pretendere di poterla meritare con il proprio irreprensibile servizio. Il cristiano deve proclamare decisamente che Dio non punisce, che le disgrazie non le manda, che la sofferenza – di qualunque genere – non proviene da Lui, tanto meno come castigo o punizione.
Stando al Vangelo, l’agricoltore non taglia il fico (cfr. Lc 13,6-9) che ancora non ha prodotto frutto; dissoda il terreno e lo concima. Non solo, Egli stesso diviene seme gettato nei solchi dell’umanità perché muoia, fruttifichi e si sviluppi. Solo l’ostinazione nel rifiuto dell’Amore provoca ma la nostra autodistruzione, la possibilità di perderci in eterno! Infatti, da quando l’unico Innocente ha condiviso la nostra esistenza umana e si è sobbarcato il peso dei nostri peccati con la sua vita, passione, morte di croce e risurrezione, tutto è stato redento.
Anche il dolore, specialmente quello innocente, ha cambiato senso. Non può più essere pensato come punizione divina per il peccato, ma solo come collaborazione alla redenzione del mondo, dando compimento a ‘ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne’ ( Col 1,24). Questo nucleo essenziale costituisce la novità del cristianesimo. Non possiamo esitare, perché ne va di mezzo il volto del Dio di Gesù Cristo, l’annuncio adeguato e credibile della nostra fede, la direzione della nostra preghiera; in definitiva, la comprensione dell’intera vita cristiana”.
Storicamente, qual è stata la percezione del problema della sofferenza?
“La dura esperienza della sofferenza ha sempre segnato l’umanità. Cambiano le modalità, ma non c’è limite umano più evidente. Tragica, ad esempio, è l’esperienza di chi all’improvviso vive le catastrofi naturali, e davvero disumano sembra essere il dolore che proprio l’uomo, volutamente, procura ai suoi simili: furti, rapimenti, aggressioni, stragi, omicidi, guerre. Inoltre gli eccidi, i cumuli anonimi di cadaveri, i campi di concentramento, i forni crematori, i gulag con tutti i drammi più raccapriccianti della nostra storia, anche recente e attuale, lasciano intravedere che tra di noi ‘possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all’amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore.
È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere’ (Benedetto XVI, Spe salvi, 45). In forme e proporzioni diverse, ad affacciarsi è soprattutto l’immane, eterno pro- blema del dolore degli innocenti. Da sempre il soffrire ha spaventato l’uomo e continua a spaventarlo, e da sempre l’umanità è impegnata nel combattere la sofferenza, nell’alleviare il dolore, nel lottare contro ogni forma di ingiustizia e di oppressione.
Gesù stesso, in tante maniere, ma particolarmente con la sua predicazione, il suo comportamento e le sue guarigioni, ha voluto portare rimedio alle innumerevoli sofferenze che incontrava, e ci ha lasciato il principio della sua presenza in coloro che soffrono: ‘Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’ ( Mt 25,31-46)”.
È vero che oggi questo problema sembra essere più pungente che in passato?
“Il mistero di sempre, oggi, è avvertito con singolare intensità da tutti, credenti compresi. Le tante atrocità della Storia, le immani tragedie dei popoli hanno acuito la nostra sensibilità. Ci siamo resi conto che il dolore non è un fenomeno che si colloca alla periferia dell’esistere, perché la sofferenza, particolarmente quella innocente, incide in maniera cruda e cupa sul centro stesso del vivere umano. Constatiamo che il dolore, tutt’al più, può essere contenuto, ma qualsiasi tentativo teso a eliminarlo si risolve in uno smacco. Inoltre, nella vita concreta l’esperienza del dolore ha più rilevanza di altre esperienze positive che procurano gioia. Se soffri, tutto il resto, per quanto sia stato gradevole, sembra svanire.
Il cristiano non sfugge a questa esperienza; partecipa dell’umanità concreta del nostro tempo, dei suoi drammi, delle sue angosce, delle sue speranze; l’utopia indirizza le sue migliori aspirazioni; la misericordia lo rende più umano verso sé e verso gli altri; la carità lo impegna senza evasioni. È però la riserva escatologica a proporlo nel dinamismo della storia come essere progettuale, dipendente da un disegno divino di liberazione nell’amore, già realizzato onerosamente in Cristo, che attende di compiersi non senza la nostra attiva accoglienza e collaborazione.
Possiamo veramente constatare che alla luce della Rivelazione ‘trovano insieme la loro ragione ultima sia la sublime vocazione e sia la profonda miseria che gli uomini sperimentano’ (Gaudium et spes, 13)”.
Come l’interrogativo riguardante il dolore umano tocca il mistero di Dio?
“L’esperienza del dolore, così centrale e rilevante nel vivere umano, sfocia inevitabilmente nel problema di Dio. Se Dio esiste ed è Dio (cioè onnipotente, ma non per questo capriccioso!), perché la miseria dell’uomo, il male, il dolore, le atrocità, le ingiustizie? Se Dio non solo esiste ma – secondo l’ottica cristiana – è anche buono e addirittura Padre, e dunque vuole la nostra salvezza, da dove vengono le malattie, la morte, la sofferenza degli innocenti? Questo mondo, così com’è, è assurdo, insopportabile, scandaloso, intollerabile… ma lo sarebbe ancor più se Dio esistesse.
L’esistenza di Dio sembra incompatibile con questo tipo di mondo. Se, di fatto, il mondo è così malvagio – e questo nessuno lo può contestare! – allora o Dio non è buono, o non è onnipotente, o non esiste. Accettare Dio significherebbe giustificare il male presente nel mondo e rinunciare a lottare contro di esso. Bisogna invece rifiutare questo mondo e Dio con esso perché, se esistesse, Lui, per primo e prima di noi, non potrebbe tollerare tanta malvagità e sofferenza. Osserva acutamente uno dei più significativi teologi del nostro tempo che, quando si tratta di contestare la fede in Dio, ‘le esperienze di sofferenza innocente… rappresentano esistenzialmente un argomento ben più grave di qualsiasi altro…
È questo il pilastro che sorregge l’ateismo’ (W. Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1984, p. 217). Infatti, ‘all’interno di ogni singola sofferenza provata dall’uomo e, parimenti, alla base dell’intero mondo delle sofferenze appare inevitabilmente l’interrogativo: perché? È un interrogativo [che l’uomo] pone a Dio come al Creatore e al Signore del mondo. Ed è ben noto come sul terreno di questo interrogativo si arrivi non solo a molteplici frustrazioni e conflitti nei rapporti dell’uomo con Dio, ma capiti anche che si giunga alla negazione stessa di Dio’ (Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, 6). Ne consegue che il carattere odioso e scandaloso del dolore interpella, oggi come non mai, qualsiasi approfondimento teologico della fede ecclesiale. Rapportandoci ai nostri contemporanei, non possiamo sensatamente parlare di Dio senza tener conto del mistero della sofferenza”.
Che cosa propone come annuncio ecclesiale adeguato alle attuali circostanze?
“Propongo di considerare maggiormente l’impegno del Figlio di Dio incarnato nella sofferenza. Tra le pieghe del dolore umano si affaccia, poderoso, il problema di Dio, della Sua esistenza, della Sua bontà, della Sua onnipotenza. Non è cosa di poco conto, e la classica teodicea, nel corso dei secoli, ne è la testimonianza più significativa. Sta di fatto però che, di fronte a questi pesanti interrogativi, la riflessione dei credenti oggi si concentra sempre più chiaramente su Gesù Cristo, la verità della sua incarnazione, la sua croce, il suo dolore, nella luce della risurrezione. Il Figlio di Dio, liberamente e per amore, in obbedienza al Padre, si è fatto uno di noi. Ha cioè assaporato e condiviso ogni tratto caratteristico della nostra umanità, meno il peccato.
La precarietà del nostro vivere umano è stata assunta completamente e personalmente dal Verbo nella sua umanità. Proprio lui ha esperimentato umanamente quel che significa per noi nascere, crescere, vivere, gioire, soffrire, morire.
L’esistenza umana, nella sua fragilità, è stata attraversata interamente dal Verbo della vita che, proprio così, ha inteso redimerla offrendole e rivelandole il suo nuovo significato. Questo comportamento storico del Figlio di Dio incarnato, che culmina nel Mistero pasquale e che trova spiegazione nelle sue stesse parole, fa sì che si capovolgano radicalmente i termini del problema: Dio non è più un imputato che dovrebbe difendersi e giustificarsi di fronte al male presente nel mondo. Al contrario, è proprio Lui che, in Gesù Cristo, soffre umanamente per amore, con noi e per noi. Tramonta così una tra le più comuni obiezioni del sofferente, perché non possiamo rimproverare Gesù di averci indicato il valore del dolore senza averlo nemmeno sfiorato.
L’intera sofferenza dell’uomo, riassunta nella croce di Cristo nel senso pieno della sua elevazione, è vissuta dallo stesso Figlio di Dio nella sua umanità: per questo non c’è più dolore rispetto al quale egli possa essere contestato come estraneo, e tanto meno come responsabile. La croce di Cristo diventa così il luogo proprio in cui poter decifrare non solo la consistenza e il valore del dolore dell’uomo, ma anche il mistero di Dio. ‘Il problema di Dio in coloro che soffrono è il problema di Dio che – nel senso vero e proprio del termine – con-patisce , si identifica con la sofferenza e la morte dell’uomo’ (W. Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, p. 222)”.