Dio è la Roccia della mia vita

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini IX Domenica del tempo ordinario - anno A

Quelli che parteciperanno alla liturgia di domenica saranno invitati a ripetere il seguente ritornello al Salmo responsoriale: “Sei tu, Signore, la roccia che mi salva”. L’allusione evidente è al Vangelo, che ascolteremo narrare la parabola del nubifragio, della casa che ne è investita e che rimase in piedi, perché ben fabbricata sulla roccia, e di un’altra casa, che, edificata sulla sabbia, crollò. Roccia è la parola “chiave”, che ci aiuterà a ben comprendere questa liturgia domenicale. Gli studiosi hanno calcolato che la parola “roccia” è presente nella Bibbia oltre 70 volte, in gran parte riferita a Dio, come predicato: Dio è roccia.

In realtà, nessuno ha visto mai Dio; eppure è possibile invocarlo come roccia, pensarlo come roccia, e anche parlarne e affermare che egli è la Roccia, la certezza, la stabilità. L’esperienza della roccia richiama alla mente ciò che è radicalmente saldo, che fa sicurezza, che non tradisce. All’opposto c’è l’esperienza della sabbia, che è mobile, sinuosa, ingannevole. Il Salmo della liturgia di oggi confessa non solo che Dio è roccia, ma che è roccia per me. Dunque Dio ha una relazione con me, che lo sperimento come mia certezza, mia stabilità. Chiunque abbia avuto simile esperienza di Lui, difficilmente poi ne negherà l’esistenza. I cristiani hanno riconosciuto, fin dalla prima generazione, che la Roccia è Gesù, Figlio del Padre, e che soltanto una vita edificata sulla fede in lui la può salvare dal crollo.

Parlano di questo anche i pochi versetti della Lettera ai Romani, che ascolteremo come seconda lettura. “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata in Cristo Gesù”. Vale a dire che nessuno è in grado di vedere la propria vita stabilmente realizzata, perché un potere malvagio, il peccato, ci rende incapaci di farlo. Allora Dio, che ha tanto amato l’uomo da prendersi pena della sua incapacità, ha mandato il Figlio a liberarlo da quel potere malvagio. Torniamo al Vangelo e proviamo a riflettere un poco sulla parabola del nubifragio, delle due case e dei due costruttori. Ogni parabola suppone sempre una domanda: che vuol dire questa piccola narrazione, per me, per noi, nel concreto della vita? Oggi essa offre già una risposta fin dall’introduzione: “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica…” (v. 24) e più avanti: “Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica…” (v. 26).

Questo testo dice che ci sono due modi di ascoltare che corrispondono a due modi di stare nella vita; si può ascoltare con sincerità, pensando che l’altro ha qualcosa d’importante da dirti; ma si può ascoltare in realtà senza ascoltare, perché uno pensa di sapere già ciò che l’altro dirà: niente d’importante. In questo caso, chi si preoccuperà di fare ciò che ha ascoltato? La parabola inoltre designa il primo ascoltatore come un uomo saggio, il secondo come un uomo stolto. Questo avrà conseguenze: il primo, che è anche un costruttore, edifica sulla roccia; l’altro, anche lui costruttore, sulla sabbia. Ognuno dei due avrà poi modo di conoscere se stesso dai risultati del proprio lavoro, al momento della prova: una casa rimase salda, all’arrivo del nubifragio, mentre l’altra rovinò. Di quest’ultima la parabola precisa che la sua rovina fu grande (v. 27).

Come dire che non si trattò solo del crollo di un manufatto, ma di una famiglia distrutta, di un progetto fallito, di speranze svanite. Nell’ambiente supposto dalla parabola, un nubifragio di quelle proporzioni non era un’eventualità remota, come potrebbe essere da noi, ma una probabilità da metter in conto: non si sa quando, ma si sa che arriverà. Nell’esistenza di ciascuno di noi, il nubifragio va messo realisticamente nel conto delle possibilità. Un incidente, una malattia grave, una morte… Molti si rifiutano di farlo per paura. Poi di fronte ai fatti, si sente esclamare: “Ma non è possibile!”. La parabola del nubifragio, che conclude il Discorso della montagna, è preceduta da alcuni versetti, che in qualche modo vanno nella stessa direzione: una vera catechesi sulla preghiera, che non può essere fatta solo di parole. “Non chi dice ‘Signore, Signore’… ma chi fa la volontà del Padre”.

Non ne è messa in discussione la necessità, ma la preghiera deve andar congiunta con una prassi di vita cristiana. In caso contrario non serve a nulla. Forse è il caso di riflettere a quante volte la nostra preghiera consista solo di suoni più o meno articolati. Poi le parole del Signore fanno riferimento a “quel giorno”, quando alcuni gli presenteranno una lista dei crediti: “Abbiamo profetato in tuo nome, cacciato demoni in tuo nome, compiuto molti miracoli in tuo nome” (v. 22), in fondo abbiamo lavorato per te. La dichiarazione di Gesù sarà molto dura: “Non vi ho mai conosciuti”. Impressionante. Eppure non è raro sorprenderci a pensare di avere qualche credito con Lui, mentre in realtà anche il migliore tra noi non ha che debiti. La questione del rapporto con Dio non si risolve a chiacchiere, né con gesti clamorosi, ma nel servizio umile e sincero alla volontà del Padre.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi