Di che parrocchia sei?

Spesso sono impressionato da quei giovani, in genere con folte barbe, in compagnia di cani piuttosto magri, che girano da una città all’altra, campando con elemosine insistentemente richieste a passanti, che passano la notte in luoghi di fortuna. Ci si domanda come fanno a vivere. Hanno lasciato spesso case decenti di famiglie normali. Preferiscono l’avventura individuale, il rischio della solitudine, la ricerca nomade di luoghi inesplorati. Ce ne sono in tutte le società avanzate e rappresentano un fenomeno rilevante. Qualche cosa del genere sembra avvenga anche in altri luoghi dove si nota una individualizzazione delle esperienze, non escluso l’ambito della pratica religiosa. Il card. Ruini, nella recente relazione svolta al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana ha parlato di dimensione comunitaria e dimensione territoriale della vita cristiana. Due aspetti dello stare insieme con coloro che sono fratelli di fede. Molti pensano di vivere il cristianesimo a modo loro, senza nessuna preoccupazione di sapere di che parrocchia sono o a quale comunità appartengono. Se fossero nomadi dello spirito, ricercatori solitari dell’assoluto, bisognosi di solitudine e di silenzio, apparterebbero alla categoria degli eremiti che sperimentano il deserto per scoprire e contemplare una presenza trascendente e altrimenti irraggiungibile. Più spesso sono soltanto dei ‘senzatetto religioso’, disposti ad occasionali incontri e ad eventuali ritorni nella casa di partenza; salvo poi a ripartire per nuovi lidi. Così la comunità dei credenti risulta dispersa, impoverita, inefficace rispetto alla sua missione di rappresentare una testimonianza significativa di fede nella società. Una specie di albero con un tronco spoglio, senza foglie né frutti. Il richiamo al territorio suona come un invito a tornare a casa, a ritrovarsi là dove si è nati, dove si vive e si svolge il proprio lavoro, dove i figli incontrano in un ambito costruttivo di valori i propri coetanei e condividono la loro crescita morale e spirituale come la loro educazione scolastica. Non bastano le proloco per creare comunità solide e autentiche di crescita umana e cristiana, anche se possono risultare positive per la socializzazione in iniziative culturali e di divertimento, a patto che non si chiudano nel deteriore campanilismo. Sono necessarie le parrocchie, che hanno come statuto essenziale di essere delle vere comunità: luoghi cioè in cui si fa comunione e condivisione dei beni essenziali della vita spirituale. In esse le persone dei fedeli sono considerate nella loro più alta dignità, perché si offre loro una parola non banale, non ovvia, non risaputa, non alienante, non ingannatrice: la parola del Vangelo, che dà senso all’intero percorso dell’esistenza. In esse, quando appunto sono vere comunità, circola la vita reale in tutta la sua ricchezza e nelle varie espressioni dell’umanità, delle sue stagioni, dei suoi ideali e dei suoi problemi. Se il cristianesimo si riduce ad un fatto privatistico perde la sua anima missionaria e solidale e diventa sterile organizzazione burocratica per rispondere solo a servizi di battesimi (sempre meno) e di funerali. In questo senso il richiamo del cardinale Ruini ci sembra un campanello d’allarme e un invito pressante che dovrebbe trovare un’eco profonda nella cristianità o in quello che resta di essa. Ed è, tra l’altro, un’indicazione pratica e un invito a coloro che sono sensibili alla conservazione della propria identità, del “non possiamo non dirci cristiani”.

AUTORE: Elio Bromuri