Anche se l’immagine della vite e dei tralci (vedi domenica scorsa) non torna più nel nostro brano, l’evangelista continua a tenerla davanti agli occhi nel presentarci l’insegnamento di oggi. La linfa vitale che scorre dal tronco ai rami della vite simbolica è l’amore; esso nasce da Dio, passa attraverso Gesù e arriva a noi. Il frutto visibile di questa vite è dunque l’amore, perché da amore nasce amore. Ancora una volta ci viene detto che la fonte e l’essenza della nostra vita cristiana è l’amore. Non è inutile ricordarlo, in un tempo di intolleranza, di violenza, di persecuzione, che fa risaltare la differenza evidente tra il cristianesimo e le altre religioni. Da questo cuore caldo della fede cristiana è nata e nasce la rigogliosa fioritura delle innumerevoli opere di carità che rendono bella la nostra Chiesa.
Solo l’amore che viene da Dio, travasato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato donato nel battesimo, spinge i cristiani all’accoglienza gratuita, alla solidarietà generosa con i più poveri e bisognosi, alla cura amorosa dei bambini, degli affamati e dei profughi nelle terre del Terzo mondo, dove volontari e missionari spendono la loro vita senza risparmio e senza calcolo. L’evangelista Giovanni ce l’ha gridato forte nella sua Lettera e bisognerebbe essere sordi per non sentire: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Dio è amore. Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio in lui” (1 Gv 3,14; 4,16).
Il Vangelo di oggi tesse insieme tre temi profondamente intrecciati tra loro: L’amore di Gesù per i suoi discepoli, conseguenza dell’amore che il Padre ha per lui; la gioia di sentirsi amati; l’amore fraterno che unisce i credenti in Cristo. Cerchiamo di dipanare questa piacevole matassa. Il primo filo è di colore rosso, rappresenta l’amore di Gesù ed è intriso del suo sangue: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. È un amore che viene dal Padre, il quale “ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Gesù traduce in gesti e sentimenti umani l’amore invisibile e immenso del Padre per noi. Nella grande preghiera della Cena poteva concludere così: “Ho fatto conoscere loro (ai discepoli) il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv 17,26). Il nome di Dio che Gesù ci ha fatto conoscere è questo: “Dio è amore! In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,8s). Da questa fonte sgorga l’amore dei discepoli: “Noi amiamo perché lui ci ha amati per primo”.
L’invito di Gesù a rimanere nel suo amore è un invito all’obbedienza, all’osservanza dei suoi comandamenti, che si riassumono nel precetto dell’amare. È come dire: ama, e fa’ come vuoi. Infatti, se ami come Gesù ha amato, non puoi che seminare del bene intorno a te, sarai spinto a sacrificarti per il bene dei fratelli. Il secondo filo da dipanare dalla matassa del discorso di Gesù è il filo bianco della gioia. Gesù dice: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. È spontaneo pensare alla gioia di chi ama e si sente amato. L’infelicità è frutto della solitudine e dell’emarginazione. La disperazione sta nel sentirsi abbandonati da tutti, imprigionati nel blocco di ghiaccio dell’indifferenza e dell’ostilità. La gioia nasce e cresce sul terreno dell’amore, specie quando l’amore è calore di gesti e di sentimenti. Solo la comunione con Gesù può dare la vera gioia. Essa consiste nella pace della coscienza e nell’impegno di fede. Pace e gioia sono due gemelle inseparabili, che nascono dalla vita divina vissuta in stretta unione con Cristo.
Egli stesso l’ha così annunciata ai discepoli nell’ultima cena: “Ora siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16,22). Allora era solo una promessa, che fu mantenuta la mattina di Pasqua, quando Gesù risorto apparve nel cenacolo: “Pace a voi! Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco ferito. I discepoli gioirono al vedere Gesù” (20,19s). Qui pace e gioia sono intrecciate in maniera indissolubile come frutto della certezza del Cristo risorto. Il terzo filo è quello d’oro dell’amore fraterno; è facile seguirne il concatenamento: il Padre ama Gesù, Gesù ama i discepoli, i discepoli devono amarsi fra loro. Guai a interrompere questa trafila, disertando l’appuntamento. Sarebbe come tradire un’amicizia profonda. Gesù stesso ci ha messo su questo piano, assicurandoci: “Non vi chiamo più servi, vi ho chiamato amici”. Il limite di questa amicizia è l’amicizia senza limiti: “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.
Quello cristiano è un amore come quello di Gesù, perché egli ha travasato il suo in noi. Egli lo chiama il “suo comandamento” (in greco: entolè); non si tratta di un precetto imposto da di fuori, ma di una “esigenza” che nasce dal di dentro, una specie di legge di natura alla quale non ci si può sottrarre. Come lui non poté fare a meno di amarci, così anche noi non possiamo fare a meno di amarci l’un l’altro. Sarebbe un andare contro natura. Dall’amore siamo nati, nell’amore dobbiamo vivere. Ecco perché Gesù ci ricorda: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”. Siamo stati amati e scelti fin dall’eternità a formare un solo Corpo con Cristo, e il frutto di questa unità è l’amore. Se non amassimo, tradiremmo la nostra natura, saremmo alberi sterili. Per noi, non amare sarebbe morire, una specie di omicidio/suicidio (1 Gv 3,14s). Da qui l’insistenza di Gesù in fine discorso: “Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri”.