Chi pensasse che la liturgia, tutto sommato, è una bella ma innocente coreografia, è stato smentito dal segretario generale della Cei mons. Giuseppe Betori durante l’omelia tenuta nel duomo di Spoleto il 29 agosto, nell’ambito della 58a Settimana liturgica nazionale. Mons. Betori, partendo dal fatto che il 29 agosto si ricorda il martirio di san Giovanni Battista, ha infatti annodato strettamente il senso del celebrare alla presenza cristiana nel mondo: che ha lo scopo di consolare, certo, ma che è fondamentalmente una ‘presenza scomoda’, come dimostra la sorte toccata ai profeti, al Battista e allo stesso Cristo. Questa dinamica, tra consolazione e giudizio di verità contro il mondo, ‘attraversa l’azione liturgica – ha detto il segretario Cei – che ne condivide le difficoltà e per così dire l’inattualità, proprio perché essa consiste nel porre in essere gesti e parole che sono ‘oltre’ il dato fenomenico. Non si tratta quindi tanto di immettere la storia del momento nel tempo sacro, inseguendo percorsi di ingenuo adattamento, ma di rendere manifesta la carica innovativa che la liturgia ha in sé, e quindi la sua capacità di riassumere nei segni di sempre l’oggi del contrasto tra Vangelo e mondo… Questa carica profetica che sta nella liturgia – prosegue Betori – è ciò che la rende sempre attuale per ogni gioia e speranza, sofferenza e aspirazione dell’umanità’. Una voce critica. ‘Un ben celebrare – ha quindi ribadito il segretario della Cei – contribuisce in modo essenziale a dire come il Vangelo si ponga sempre in alternativa a ogni provvisoria realizzazione umana e sia sempre voce critica di ogni assetto sociale e culturale nel cammino verso la pienezza del Regno. Non si tratta di inseguire l’attualità, ma di dare rilievo nella verità della celebrazione alla sua dimensione escatologica, e quindi profetica e critica del presente. Non possiamo dimenticare come la persecuzione ha spesso preso le forme della proibizione del culto e ha colpito i credenti nella libertà della loro azione liturgica. Essere fedeli alla lode di Dio è per se stesso affermazione di verità e fonte di contrasto con assetti culturali e sociali disumanizzanti e quindi avversi a Dio. Impegnarsi per una buona prassi liturgica significa impegnarsi per la verità del Vangelo, nella fedeltà al Signore’. Giovanni e Gesù. In questo modo mons. Betori fa confluire il tema della Settimana nella memoria liturgica del martirio di san Giovanni Battista, precursore del Messia anche e soprattutto nella morte ingiusta che dovette subire a opera dei poteri forti del tempo. Il figlio di Elisabetta, annota Betori, precede Gesù nella nascita miracolosa e nell’annuncio della conversione, ma in particolare ‘eccoci al terzo atto di questa vicenda di precorrimento, che vede il Battista sottoposto per primo al rifiuto, alla condanna e alla morte, anticipando nel suo essere consegnato alla violenza del potere di Erode Antipa la consegna che verrà fatta di Gesù alla violenza del potere dei sommi sacerdoti e del procuratore romano di Giudea’. ‘In questo destino – continua – Giovanni non solo anticipa il Cristo, ma completa una storia di rigetto e di sofferenza che ha sempre accompagnato i profeti in Israele… La parola di Dio che risuona nel mondo attraverso le parole di un profeta ha in sé una carica di inevitabile contrasto con il modo vigente di pensare e di guidare gli eventi, in forza della novità la contraddistingue. Vale per Geremia come per il Battista, e la pagina evangelica lo esemplifica in modo netto. Vale soprattutto per Gesù, come per chiunque accetta di farsi suo discepolo, profeta oggi della sua parola per gli uomini’. ‘Lungi da noi – ne conclude Betori – pensare che la parola del Vangelo possa risuonare nel tempo senza generare opposizione e rifiuto. È una condizione da accogliere come garanzia di autenticità del nostro servizio alla verità, anche se comporta il prezzo dell’emarginazione culturale e sociale e, ancora per tanti cristiani nel mondo, oppressione e persecuzione violenta’. Realismo, non irenismo. In definitiva, ‘questa natura antitetica del Vangelo, che si preannuncia in Giovanni e che si compie in Gesù, non può essere sottaciuta in nome di un vago e pericoloso irenismo, che, magari nel nome di un malinteso dialogo o di una falsa tolleranza, va cercando mediazioni improponibili. Non si tratta certo di una ricerca masochistica della sofferenza, ma – ribadisce il prelato – di un realismo che non permette commistioni indebite o attenuazioni della verità. Non vogliamo fare del vittimismo, ma siamo consapevoli che anche oggi la fedeltà alla parola di Dio può comportare incomprensioni e condanne sociali. Male faremmo a scoraggiarci o a cercare impossibili vie di mezzo. Ci è chiesta una parola di giudizio, che sappiamo bene deve accompagnarsi alla parola di consolazione, ma questa non significa la diminuzione di quella, al contrario. Il ‘non ti è lecito’ è un giudizio che nel suo implicito invito alla conversione è già una prospettiva di possibile consolazione per chi ascolta. Questa consolazione diverrà ancora più chiara sulle labbra di Gesù, non meno deciso nel giudizio di verità e rivelatore di Dio Padre che avvolge del suo amore ogni uomo. Fare unità di giudizio e consolazione, senza sconti e senza dimenticanze, è quanto oggi ci è chiesto con fedeltà e coraggio, libertà e franchezza’.