Da dove arrivano queste idee folli?

Alma, la moglie di Emanuele Petri, vive a Tuoro sul Trasimeno. Cerca di vivere con semplicità, di superare il dolore. Resta la domanda: Perchè? Ne ha parlato con Gabriella Pesenti di ‘Avvenire’Il 2 marzo 2003 le Br uccidono l’agente della Polfer Emanuele Petri. La brigatista Nadia Lioce viene catturata. Da allora le indagini portano a smascherare complici e a sventare nuovi piani omicidiTornare nell’ombra, alla vita semplice di prima. Di prima che i terroristi le uccidessero il marito, anche se sarà completamente diverso. “Non sarà facile, lo so. Perché Emanuele non c’è più. Perché tutte le volte che si riparla di Brigate rosse il telefono di casa squilla…”. Alma Petri parla in fretta, contenendo la stanchezza che la prende ogni volta che si ritrova suo malgrado al centro dell’attenzione. Come dopo la notizia che i terroristi avevano un lungo elenco di possibili bersagli. “L’ho saputo ascoltando il telegiornale. Ero incredula. Così tante persone nel mirino, addirittura tre o quattro pedinati. Possibile? Mi sono chiesta. Poi ho sentito il nome di Enrico Letta. Mi è rimasto impresso forse perché era il primo che ho captato”. I telegiornali li vede sempre e “un po’ tutti”, ma quando si parla di brigatisti le immagini svaniscono. Davanti ai suoi occhi, da quella mattina del 2 marzo 2003, scorre sempre la stessa scena, “quando per un attimo mi hanno concesso di vedere mio marito…”. La voce sembra scomparire nel gorgo delle onde ribelli dei telefonini, forse s’è spezzata. “Lo immaginavo ferito, pensavo di vederlo sporco di sangue. Invece era là disteso, in divisa, come se dormisse. Con quel piccolo foro che aveva lasciato solo una bruciatura. E io che ripetevo: “Non è possibile che sia morto””. Un sacrificio che però non è stato vano e che la conforta. “Io non ho più mio marito, ma la sua morte è servita a salvare la vita di queste persone. Sono orgogliosa per lui, per la divisa che portava e alla quale ero molto legata. Quanto mi commuovevo ai funerali dei suoi colleghi. E lui che cercava di scuotermi: “È il nostro lavoro, può succedere che non torniamo…”. Ma Alma impiegò parecchio a convincersi che Emanuele non c’era più. “Mi sembrava che fosse successo a un altro, non so spiegare”. Nemmeno vedere le foto di Nadia Lioce, arrestata subito dopo la sparatoria sul treno costata la vita a suo marito, sovrintendente della Polfer, l’aiutò. “Aspettavo il momento del processo per poterla guardare, per rendermi conto che esisteva, che era una persona in carne e ossa. Non ricordo neppure quando accadde. So solo che la vidi e la sentii dire, parlando della morte di Emanuele, di “un piccolo, modesto episodio”. Non lo dimenticherò mai”. Poi subentrò l’indifferenza. La stessa che prova nei confronti di tutti i terroristi, anche della pentita Cinzia Banelli. “È come se avessi deciso di rimuovere dalla mia mente tutta questa gente”. Non volle neppure assistere alla lettura della sentenza contro la Lioce, condannata all’ergastolo per la sparatoria sul treno in cui morì anche il terrorista Mario Galesi. “E non entrerò più in un’aula di tribunale, penserà a tutto il mio avvocato”. A lei restano il dolore, la fede e quella “bella immagine” del marito che dorme. Oltre a una domanda martellante, alla quale non riesce a dare una risposta: “Perché tutto questo? Da dove arrivano queste idee folli?”. Risposte forse cercate nell’incontro di sabato con Olga D’Antona, moglie del professore ucciso a Roma cinque anni fa. Un’emozione imprevista. “Finalmente ho potuto abbracciare una persona che ha vissuto la mia stessa tragedia e mentre parlava del suo libro, della sua esperienza, avevo l’impressione di trovarmi davanti a uno specchio”. Medesima indifferenza verso gli assassini dei rispettivi mariti. “E non volendo pensarli, non mi pongo neppure il problema del perdono”, si sfoga Alma Petri. Eppure “la parte cristiana di me ha già perdonato – ammette in un soffio -, ma poi prende il sopravvento la parte umana e allora il perdono non rientra più nei miei pensieri”.

AUTORE: Gabriella Pesenti