Cristo sale al Cielo, non al cielo

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini Ascensione del Signore - anno A

L’Ascensione celebra ciò che professiamo nel Credo: “Salì al Cielo e siede alla destra del Padre”. Lo diciamo, in genere, così tranquillamente a memoria, da non percepirne la portata dirompente. L’immaginario collettivo, aiutato da tanta iconografia, e non solo, ha negli occhi la figura di Gesù che sale verso le stelle e forse oltre, non si sa bene verso dove. Salvo poi rimanere interdetti quando qualche astronauta manda dire di non avervi incontrato nessuno. L’affermazione del Credo deriva dal linguaggio biblico che, usando il termine Cielo o Cieli, intende dire “Dio”, e non il firmamento che vediamo a occhio nudo.

Dunque, quando affermiamo di credere che Gesù è salito al Cielo, intendiamo dire che, dopo essere scomparso dalla vista dei suoi amici, è tornato nel mondo eterno di Dio, con tutto il “carico” della sua umanità, che è anche la nostra. Con lui, anche noi, che lo confessiamo Vivente, siamo entrati a far parte della dimensione misteriosa di Dio. Poi aggiungiamo: “E siede alla destra del Padre”. Altra espressione proveniente dall’antico linguaggio biblico, che non fa riferimento ad uno spazio cosmico, né ad alcun altro spazio, in cui Dio avrebbe eretto il suo trono, lasciando un posto alla sua destra per Gesù; significa invece la “partecipazione di Gesù alla sovranità propria di Dio su ogni spazio… e il suo potere di presenza nel mondo” (cfr. Ratzinger). Come egli disse: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30).

Il breve Vangelo di questa festa termina così: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Con queste parole Gesù si accomiata visibilmente dai suoi; sono parole sconvolgenti, ma comprensibili. Nel momento in cui si assenta, dichiara che rimarrà comunque con loro. Si tratta di un nuovo modo di essere presente. Tutti noi, del resto, abbiamo esperienza che una persona profondamente amata è presente al nostro spirito, alla nostra mente, anche quando è fisicamente assente. Non è forse vero che si può continuare a vivere, e perfino a crescere nella vita, grazie a un ricordo, a una parola, che ci ha segnato per sempre? Queste forme diverse di presenza non sono illusorie.

Sono i testimoni stessi dell’Ascensione, i discepoli (Lc 24,52), a dire che quel Gesù che ha camminato al loro fianco, che hanno ascoltato, visto, toccato, ora vive in loro, con una presenza ancora più intima della precedente: prima era con loro, adesso è in loro. Nel più profondo di loro stessi. Ora è il suo Spirito che li anima. Parla in loro, agisce in loro. L’apostolo Paolo scriverà ai cristiani della Galazia: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20). La prima lettura si diffonde a narrare l’evento Ascensione con grande ricchezza di particolari.

Dopo i primi due versetti riassuntivi, l’autore, Luca, precisa che Gesù dopo la sua passione si mostrò vivo ai suoi discepoli, con molte prove, durante quaranta giorni. L’ultimo giorno, mentre erano a tavola, li invitò a non lasciare da Gerusalemme, perché entro pochi giorni saranno battezzati in Spirito santo. Probabilmente “gasati” un po’ da questa promessa mal compresa, gli chiesero se era arrivato il momento della realizzazione di ciò che avevano atteso per secoli: la restaurazione dell’antico regno di Davide. Gesù rispose che questo rimaneva fuori delle loro competenze. Loro piuttosto hanno il compito di testimoniare, fino ai confini della terra, che egli è il Risorto.

Poi, mentre lo guardavano, una nube lo nascose gradualmente alla loro vista. E mentre insistevano a guardare in su, si presentarono due signori vestiti di bianco che dissero: “Lo stesso Gesù che avete visto andarsene, tornerà nello stesso modo in cui lo avete visto partire” (At 1,10). Per questo la liturgia cristiana celebra l’Ascensione quaranta giorni dopo la Pasqua, durante i quali non cessa di proclamare che egli è il Vivente e che tornerà, non più nella debolezza della carne, ma nella gloria della sua divinità, per prendere definitivamente possesso del suo Regno e consegnarlo al Padre (1 Cor 15,24).

La fede nel ritorno di Cristo è il secondo pilastro dell’annuncio cristiano. C’è stata una prima venuta di Gesù, fragile bambino, nato miracolosamente da una Vergine; ce ne sarà una ultima, alla conclusione della storia, quando ogni uomo lo avrà riconosciuto e confessato Vivente, primogenito di coloro che risuscitano dai morti. Le prime generazioni cristiane vivevano nell’attesa del ritorno del Signore e pregavano per affrettarlo; lo facevano con una preghiera nell’antica lingua aramaica, Maranatha, “Vieni, Signore”. Più tardi compresero che c’è anche una terza venuta del Signore, in questo tempo intermedio, che è il tempo dell’attesa vigilante; ma anche il tempo della sua attuale presenza. Siamo tutti chiamati a vivere la tensione tra il “già” e il “non ancora”.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi