Il lezionario di oggi ci fa compiere un salto nel Vangelo di Matteo, e tralasciando il cap. 19 ci porta a quello ventesimo. Intanto abbiamo appreso che Gesù si sta sempre più avvicinando a Gerusalemme: ha lasciato la Galilea ed è ormai “nel territorio della Giudea, al di là del Giordano” (Mt 19,1). Non sappiamo esattamente dove si trovi questo luogo, ma immaginando che Gesù, come i molti pellegrini della Galilea che si recavano in pellegrinaggio alla città santa, non potesse attraversare la Samaria, possiamo ritenere che sia appunto ad est del Giordano, dove però abitavano molti ebrei: a buon titolo questa zona poteva essere considerata “territorio della Giudea” (Hagner).
Qui Gesù insegna, come ha fatto anche nella sua Galilea, e racconta la parabola degli operai che soltanto il Primo Vangelo, quello di Matteo, ci tramanda. La parabola – definita dal grande specialista di questo genere letterario Adolf Juelicher “il cuore della buona notizia, il centro del vangelo, un evangelium in nucem” – si compone di due parti: la prima riguarda il reclutamento degli operai, la seconda il pagamento degli stessi. Al v. 16 poi abbiamo la conclusione (“Così gli ultimi saranno i primi, e i primi gli ultimi”), che però non sembra totalmente appropriata al racconto, perché la parabola non parla di qualche “inversione”, anche se effettivamente al v. 8 l’ordine con cui gli operai ricevono la paga è contrario rispetto a quando sono stati chiamati (Lambrecht).
La parabola, ancora una volta, come quella della scorsa domenica, gioca sul paradosso: perché mai un padrone dovrebbe arruolare gli operai quando ormai la giornata lavorativa sta per finire? E perché paga tutti allo stesso modo, anche quelli che hanno lavorato di meno? La sua è un’impresa volta al profitto o un’opera assistenziale? Il racconto, come è ovvio, non si pone il problema di stabilire quale sia la paga giusta per i lavoratori, quanto piuttosto vuole sfidare gli ascoltatori (i lettori) con la questione che sta al centro del nostro vangelo, ripresa dalla domanda del padrone: si può essere invidiosi per il fatto che questi è buono? E quale giustizia muove il suo atteggiamento? Se si rimane nell’ambito del racconto fittizio che è la parabola, non si può rispondere che in un modo: quell’uomo non è un padrone giusto. Qualsiasi associazione sindacale avrebbe buon gioco a organizzare uno sciopero a cui tutti (tranne gli operai “dell’ultima ora”, ovviamente) aderirebbero per far rispettare le leggi che regolano il mercato del lavoro.
Ed ecco che con questi ragionamenti è stata svelata la nostra incapacità di vedere le cose se non nella nostra prospettiva, ed ancor più, è stata mostrata la nostra naturale gelosia, l’invidia che muove tante volte i nostri comportamenti. Ma questa è una parabola, e qui non si sta parlando di questioni sindacali, ma del regno di Dio. Bisogna uscire dalla logica interna del racconto ed accettare che per Dio, nel suo modo di vedere le cose, la bontà non è contraria alla giustizia: la sorpassa. Quando gli ascoltatori (i lettori) capiscono che hanno a che fare con Dio, quello rivelato, presentato da Gesù, quello di cui lui parla e di cui annuncia il Regno, quando accade questo, allora tutto cambia e possono arrivare a conclusioni a cui noi da soli non giungeremmo mai, con i nostri poveri atrofizzati modi di pensare. Dio, quando si manifesta nel suo Figlio, non cessa di stupire e di provocarci.
A quale gruppo appartengono i cristiani di oggi, noi lettori attuali di questa parabola? Tra quali operai ci collocheremmo? “Anche tra i cristiani vi sono quelli che sono arrivati prima e quelli che sono arrivati più tardi. Non tutti hanno portato il peso della giornata e del caldo. Ancora di più: non tutti i cristiani sono pronti a rispondere o sono fedeli, perché anche nella comunità di Matteo è presente la zizzania insieme al buon seme. La sua comunità è fatta di tante identità, e questo potrebbe portare i cristiani più ferventi [quelli della prima ora] a sentirsi superiori e a mancare di pazienza, addirittura a dispiacersi della misericordia di Dio. Ma, in ultima analisi, non siamo, noi tutti cristiani, in un senso religioso e morale, operai dell’ultima ora?” (J. Lambrecht, Out of the Treasure. The Parables in the Gospel of Matthew, 83).
In questo senso, la nostra parabola somiglia a quella della domenica passata, con il servo perdonato dal padrone: chiunque ha ricevuto qualcosa (il perdono) da Dio, non può non ricambiare. Anche gli operai della prima ora non possono che gioire per quello che il padrone del campo dona agli altri. Ma in un senso religioso, nella prospettiva della storia della salvezza, la Chiesa e i credenti in Cristo non possono che ritenersi operai dell’ultima ora rispetto al popolo dell’alleanza. Come scrive Paolo ai Romani, gli ebrei per primi sono stati chiamati a lavorare nella vigna: essi per primi, rispetto ai cristiani, hanno avuto “l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen” (Rm 9,4-5). Ora che anche noi siamo stati chiamati, non possiamo che ammirare coloro che da molto tempo più di noi hanno faticato in quel campo, e non possiamo non stupirci, e ringraziare, per il fatto Dio non ci ha lasciati soli, nelle piazze delle nostre città, ad oziare disoccupati e senza alcun senso nella nostra giornata.