La morte di Giulio Andreotti, avvenuta nella tarda mattinata del 6 maggio, chiude un’epoca che è ancora tutta da esaminare con gli occhi imparziali dello storico. Quello che è certo è che Andreotti è stato protagonista tra i maggiori della seconda metà del secolo scorso in un’Italia uscita dalla guerra, dilaniata ed impoverita, e con la necessità di costruire una democrazia tutta da inventare nei suoi contenuti di dignità, di eguaglianza, di giustizia, una democrazia che il nostro paese non aveva certo conosciuto nella prima metà del novecento.
C’è stato il giovane Andreotti, fedele collaboratore di De Gasperi negli anni della ricostruzione del nostro Paese, l’Andreotti del potere, più volte ministro e sette volte presidente del Consiglio, il paziente tessitore dei rapporti internazionali nella piena fedeltà all’Alleanza atlantica ma nella sorprendente ed illuminata apertura ai Paesi arabi, consapevole, e lo è stato fino all’ultimo, che
non ci potrà mai essere pace durevole in quello scacchiere internazionale senza un’equa soluzione del problema palestinese. E poi l’uomo del Vaticano e delle istituzioni, che ha dovuto vivere in prima persona il dramma del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro. C’è stato infine la stagione dei processi che Andreotti ha vissuto esemplarmente, difendendosi nei processi e non dai processi.
È stato con questo pezzo di storia che io, entrando per la prima volta in Senato nel 1994, mi sono incontrato ed ho dovuto convivere la mia esperienza parlamentare. Ed ho scoperto un uomo sconosciuto, disciplinato ed assiduo frequentatore dell’aula parlamentare ed attento ai rapporti umani, improntati a riserbo, ma anche a squisita signorilità e gentilezza. Ho conosciuto una sorta di enciclopedia vivente della memoria storica della politica italiana, ricca di lucide interpretazioni, ma anche di aneddoti curiosi ed inediti.
Una memoria ferrea la sua, forse rafforzata dalla quotidiana pratica della scrittura dei diari, che quando verranno pubblicati – se mai ciò avverrà – imporranno la riscrittura di molte pagine della recente storia dell’Italia democratica. C’è chi dice che nelle sue battute fulminanti si nascondesse una buona dose di cinismo, io invece credo che quel suo modo di rispondere a sollecitazioni o a vere e proprie provocazioni fosse una sorta di armatura in cui Andreotti nascondeva il suo riserbo e la sua impermeabilità alle quotidiane beghe della politica politicante.
Era anche un modo di guardare tutto con distacco per non farsi travolgere dagli eventi, come quando mi ricordava, in occasione di un acceso dibattito parlamentare, di aver vissuto ben altri difficili momenti, come nel dibattito per l’approvazione del Patto atlantico, quando volavano le tavolette-scrittoio inserite nei banchi del Senato e lui, sottosegretario alla Presidenza, unico rappresentante al banco del Governo, si dovette difendere infilandosi sul capo, a mo’ di elmetto, il robusto raccoglitore della carta che aveva al fianco.
Certo l’Andreotti che io ho conosciuto era molto lontano dagli anni del potere e per questo più umano, quasi distaccato dal conflitto politico e quindi anche più sereno nel giudizio degli eventi che hanno attraversato la sua vita. Un uomo che telefonava alla moglie perché non lo aspettasse per la cena quando le sedute dell’aula si prolungavano, e che però si preoccupava che la cena gli venisse lasciata in caldo per il suo ritorno. Ho vissuto con lui, gomito a gomito, nella commissione Esteri e mi sorprese in modo inaudito quando lui, maestro di politica internazionale, chiese a me il permesso di parlare dopo che ero stato designato dal gruppo del Ppi quale capogruppo in quella commissione.
Era anche il momento dell’avvio dei suoi processi, e mai l’ho sentito lamentarsi dei giudici e della sua interiore sofferenza, che il suo proverbiale riserbo nascondeva. Eppure un uomo tanto odiato e criticato come lui, quando si alzava a parlare nel Senato, era da tutti ascoltato in religioso silenzio. Come quando ricordò, ed era il momento dell’intervento italiano in Serbia, che si stava mutando la natura della Nato perché, ammonì, i patti sottoscritti contemplavano soltanto l’intervento di uno Stato membro allorché un altro Stato dell’alleanza fosse stato attaccato. Era la natura difensiva dell’Alleanza che stava ricordando a tutti noi mentre la Nato, senza modificare i patti sulla base dei quali era nata, stava diventando uno strumento, seppur necessario, di polizia internazionale. La cultura politica di Andreotti, in cui si era formato, era quella dell’articolo 11 della nostra Costituzione, che afferma il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
C’è poi l’uomo dei misteri, dei diari segreti, il politico discusso e discutibile, ma anche l’uomo che dialogava con Dio nella quotidiana messa mattutina, e a Cui affidava le sue nascoste sofferenze.