Eccoci nuovamente al conflitto di interessi, che affonda la ministra Guidi, ma lambisce, suggerisce ed evoca anche altri scenari. In questa Terza Repubblica che sta delineandosi sulle macerie della Seconda (che poi forse risalgono alla Prima, e restano sempre macerie), il conflitto di interessi non risulta più agglutinato, aggrumato, come nella cosiddetta Seconda, intorno alla figura di Berlusconi, che finiva col mettere in ombra qualsiasi altro caso. Sembra invece moltiplicarsi ‘parkinsonianamente’ in tutto il corpo politico. Anzi, l’impressione che emerge dallo stillicidio delle informazioni e della disinformazione è che sia proprio la contiguità degli interessi a suggerire le solidarietà politiche, a entrare nelle agende delle politiche pubbliche, a garantire equilibri che si percepiscono come molto precari. Senza scomodare – come spesso si fa in questi casi – la moglie di Cesare (che, come recita il bimillenario detto, non solo deve essere onesta, ma anche al di sopra di ogni sospetto, e finisce coll’essere ripudiata), forse bisogna fare una riflessione un po’ più profonda della deprecazione moralistica o della speculazione politica, che lasciano entrambe il tempo che trovano.
Molti anni fa uscì un libro che, al di là dei contenuti, aveva un titolo ancora oggi molto suggestivo: Una certa reciprocità di favori. Che è una cosa bellissima e utile nelle comunità familiari allargate, nel vicinato. Si pensi a cose modernissime, ma di fatto antiche, come la Banca del tempo. Se invece la “reciprocità di favori” diventa sistema di governo, non ci siamo: tutto affonda nella melma, in una indistinta marmellata che asfissia le istituzioni, e dunque anche la società civile e la vita economica. Certo, il conflitto di interessi riguarda tutte le istituzioni complesse. Ma, bisogna dire la verità, in Italia alligna in modo lussureggiante. Così da generare una rincorsa in fin dei conti un po’ grottesca. Sospettando dei “livelli intermedi”, si è scommesso sulla “verticalizzazione” della decisione, ma non della responsabilità, con risultati – ovviamente, proprio per questo – assai modesti. Messa in mora l’amministrazione pubblica, così come l’impresa pubblica, si sono sviluppate politiche di “privatizzazione” che spesso sono state intese nel senso più antico e meno nobile del termine, gestite appunto secondo scorciatoie di contiguità, ben lontano dai paradigmi libreschi di efficacia e di efficienza. Il risultato è un processo di delegittimazione generalizzato, e il corrispettivo montare di una protesta disarticolata e impotente; l’uno e l’altro, fenomeno a garanzia dello statu quo, ovvero del fatto che le cose non cambino. Cosicché il tono etico complessivo decade, proprio perché “così fan tutti”. È proprio questo il pericolo da evitare con tutte le forze. Lanciando un’operazione realtà che è poi anche un’operazione verità e libertà, l’unico modo per non rassegnarsi: ci pensino i cattolici, oggi alla ricerca di forme nuove ed efficaci di una presenza pubblica che resta più che mai necessaria, nell’Italia e nell’Europa di oggi e di domani.