Gesù è di nuovo a tavola, in dialogo con gli altri commensali. È la quinta volta che Luca lo presenta così, come maestro intento a impartire insegnamenti nel clima di confidenza che la tavola può creare. La prima volta è accaduto in casa di Levi-Matteo (5,29), una seconda volta in casa di Simone il fariseo dove incontra la peccatrice pentita (7,36), la terza volta in casa di Marta e Maria, le sorelle di Betania (10,38), la quarta volta in casa di un anonimo fariseo dove impartisce lezione su il puro e l’impuro (11,37). Stavolta Gesù è invitato da un capo fariseo del luogo insieme ai notabili del posto. Un’occasione ghiotta per l’annuncio del suo vangelo, perché a tavola si crea un ambiente familiare disarmante. Non c’è posto per polemiche e contrapposizioni.
Entrando in casa, ha notato subito due problemi sui quali appuntare la sua attenzione e il suo insegnamento: c’è stata la corsa ad accaparrarsi i primi posti, che forse aveva creato problemi al padrone di casa; e ha letto nella mente e nelle parole bisbigliate tra i commensali la preoccupazione di dover ricambiare l’invito ricevuto senza dimenticare nessuno dei presenti. Doveva essere difficile per il padrone di casa assegnare i posti a commensali illustri e decidere le precedenze dovute al rango sociale, al grado di dignità, all’anzianità di ciascuno degli ospiti. Si rischiava di creare spiacevoli rivendicazioni e offese, che avrebbero poi pesato, in una società basata sulle precedenze debitamente etichettate. Appena tutti si sono sdraiati a mensa su comodi cuscini, Gesù inizia a parlare e subito monopolizza la conversazione.
Nel racconto non si ode alcun altra voce. Nei suoi discorsi è abituato a partire sempre da una situazione concreta. Qui lo fa dettando regole sagge di comportamento a tavola, come avevano fatto i sapienti ebrei prima di lui (Sir 31,12-24; Prov 23,1-8). Sorprende che Gesù dia consigli che sembrano a prima vista estranei all’annuncio del vangelo. Egli vuole far capire innanzi tutto che rientrano nel suo messaggio anche le regole di educazione e di rispetto, che rendono umano il vivere in società. La carità cristiana non deve calpestare le regole di sana educazione. Nessuno deve dimenticare di essere uomo, oltre che cristiano. Il comportamento umano equilibrato è parte integrante del comportamento evangelico. Forse dovremmo insistere di più su questo punto, in una società che la trascura, creando persone irriverenti e ignare del rispetto e della finezza. Ma nelle parole di Gesù c’è molto più del semplice galateo, c’è un rovesciamento di mentalità e di comportamenti tipico del vivere cristiano. Egli critica una gerarchia di valori sbagliata fondata sulla competizione per primeggiare.
La logica del regno di Dio è invece fondata sull’umiltà e sulla modestia. Il cristiano non cerca i primi posti, ma gli ultimi, per servire e non per essere servito. Gesù ne darà chiaro esempio nell’ultima cena, quando assume la condizione di schiavo che lava i piedi ai commensali (Gv 13,4ss; Lc 22,27). Il cristiano è l’uomo libero da ambizioni di carrierismo, che sa mettersi al servizio disinteressato e delicato del prossimo. Per Luca il pasto a cui Gesù partecipa è simbolo e segno del pasto cristiano che i primi credenti amavano prendere insieme, e dove inserivano la celebrazione eucaristica: “I credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune. Ogni giorno insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane nelle loro case, prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore” (At 2,44-46). Qui valevano le nuove regole che Gesù ha appena enunciate, senza favoritismi o esclusioni (Gc 2,2-4).
L’orizzonte si allarga poi al banchetto finale al quale tutti siamo invitati, quello del regno di Dio. Qui le regole umane sono capovolte: gli ultimi saranno primi e i primi saranno ultimi (Lc 13,30), “perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. Il secondo fatto che Gesù ha notato nei commensali è la preoccupazione di dover ricambiare l’invito a pranzo appena ricevuto. Tra i commensali poteva circolare questo scambio di inviti più o meno espliciti. A contrastare questa consuetudine Gesù getta una provocazione al padrone di casa: la prossima volta, “quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici e ricchi vicini ma invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai una ricompensa nella resurrezione dei giusti”‘.
Le tre categorie di poveri qui elencate erano proprio quelle escluse dal culto ed emarginate dalla società ebraica del tempo. Il consiglio risulta perciò ancora più paradossale e scioccante per un fariseo, ma non lo è meno anche per noi oggi. Segna l’abolizione di ogni etichetta umana, per sconfinare nella carità generosa e disinteressata di Dio; è un adeguarsi al suo stile di Padre premuroso nei confronti dei figli più bisognosi, amici o nemici che siano (Lc 6,31-36). Questo ha fatto nascere nelle nostre chiese tante mense per i poveri, tanti rifugi per i senza tetto, tanta assistenza gratuita e amorevole per i bisognosi e per gli stranieri.
Rabbi Simone il Giusto, vissuto a ridosso della prima èra cristiana, diceva: “Il mondo si regge su tre cose: la parola di Dio, la preghiera, e le opere di amore”. Su quest’ultima insiste Gesù nel nostro brano. Con una promessa: “Sarai beato e riceverai la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”. Il contraccambio per la nostra generosità lo riceveremo da Dio, sia ora con una grande felicità interiore che accompagna sempre la carità, sia in futuro alla risurrezione dei giusti, quando il giudice ci dirà: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (Mt 25,34-36). Con questo comportamento, trasformato in stile di vita, si diventa figli autentici del Padre che è nei cieli.