Con questo primo numero di Avvento inizia il commento di fra’ Giulio Michelini ofm, giovane studioso di Sacra Scrittura di cui è docente presso l’Istituto Teologico di Assisi. Lo ringraziamo di aver accettato il nostro invito e gli rivolgiamo l’augurio di poter stabilire una proficua “intesa evangelica” con i lettori.
È difficile aspettare. Ma a questo ci richiama la liturgia odierna, a partire dal tempo di Avvento che oggi inizia, dalla lettura del Vangelo e da una delle preghiere collette, con la quale chiediamo proprio di “saper attendere” il ritorno glorioso del Cristo, giudice e salvatore. Invece vorremmo sempre tutto e subito. Senza attese inutili, senza doverci mettere in fila ogni volta, perdendo il tempo prezioso che non ci basta mai. Anche nelle “cose buone”. Come Pinocchio, che appena accettata l’idea di dover andare a scuola, dice a se stesso: “Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere e domani l’altro imparerò a fare i numeri. Poi, colla mia abilità, guadagnerò molti quattrini e coi primi quattrini che mi verranno in tasca, voglio subito fare al mio babbo una bella casacca di panno” (Cap. IX). Ricordiamo come finisce. Pinocchio vende l’Abbecedario e invece di andare a scuola va al teatro dei burattini.
La lettura del Vangelo del lezionario odierno è un centone tratto dal capitolo ventunesimo di Luca. Nei primi quattro versetti ci dice dei segni cosmici, continua poi con una parenesi sulla sobrietà e si conclude con l’invito all’attesa e alla vigilanza. Questo capitolo, costruito attorno al discorso escatologico del capitolo 13 di Marco, è un esempio di quel genere letterario apocalittico presente anche in altri luoghi del Nuovo Testamento e soprattutto nell’ultimo libro del canone cristiano. Un modo di scrivere che non ci deve spaventare, ma che nemmeno ci deve distogliere dal messaggio che porta e a volte nasconde. È come se l’orchestra che Luca dirige desse ora fiato a tutti gli strumenti che possiede, improvvisamente intervenissero tutti gli archi e emergessero le percussioni col loro ritmo frastornante: tamburi, grancasse… è come se le voci del coro intonassero il Dies irae della messa da Requiem di Verdi o di Mozart.
E poi cessasse improvvisamente il suono ed ecco – finalmente – il senso di quanto è stato eseguito: “Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21,36). Così, mi sembra, funziona Lc al cap. 21. Tutto parte da un apparentemente innocuo apprezzamento fatto da alcuni discepoli, al v. 5: “Mentre alcuni parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano, [Gesù] disse: “Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta”. Il Vangelo di Marco ci restituisce con il discorso diretto anche le parole dell’ingenuo amico: “Mentre usciva dal tempio, un discepolo gli disse: Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!” (Mc 13,1).
Non l’avesse mai fatto. Gesù anziché sintonizzarsi sulla questione estetica della bellezza del tempio non perde l’occasione per aprire quel discorso escatologico sulla rovina del tempio e di Gerusalemme, sulle catastrofi cosmiche e sul ritorno del Figlio dell’Uomo che copre tutto il capitolo fino, appunto, ai versetti sulla vigilanza che stiamo vedendo, e che lo chiudono. Ci interessa in modo particolare il verbo usato da Luca per dire di “vegliare”: agrupnè. Raramente usato nel Nuovo Testamento, sembra essere composto dai termini ùpnos (sonno) e agròs (campo) che formano quindi il concetto del dormire in aperta campagna (il vegliare dei pastori?) (Balz-Schneider). Occorre altre tre volte: nel versetto parallelo di Mc 13,33, capitolo e contesto a cui abbiamo accennato (“State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso [in gr. kairòs]”); in Ef 6,18, ancora collegato alla preghiera (“Pregate incessantemente… vegliando”), e infine in Eb 13,17, dove si dice del vegliare dei capi – appunto i “pastori” – che hanno responsabilità sul popolo di Dio (“Essi vegliano su di voi”).
Come sostantivo correlato si trova anche quando Paolo scrive autobiograficamente delle sue fatiche, in 2 Cor 6,5 (“nelle percosse, nelle carceri, nelle sommosse, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni”) e in 2 Cor 11,27 (“fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, digiuno frequente, freddo e nudità”). Controllando anche l’uso del verbo nel Primo Testamento troviamo alcune idee suggestive. La prima nel Sal 127, dove si dice del Signore “custode e sentinella” della città, sulla quale egli veglia. Poi il Cantico dei cantici 5,2, dove poeticamente si parla dell’amore che vince e supera ogni “sonno”: l’amante, attendendo il suo amato, e anticipando la sua “voce che bussa”, dice: “Io dormivo, ma il mio cuore vegliava”. Ancora: come sostantivo ricorre soprattutto nel libro del Siracide, dove indica la laboriosità dell’uomo capace di perdere il sonno pur di completare l’opera delle sue mani (Sir 38). Emerge una costellazione di senso molto chiara e ben definita.
L’attesa cristiana non è un qualcosa di passivo o mal sopportato. Non è l’impiegare il tempo per far qualcosa “mentre si aspetta”. È colma: di preghiera (vedi Lc, Mc ed Ef); di amore (come quello della donna del Cantico); di sofferenza e di prove (come quelle di cui parla Paolo). Non manca l’idea della laboriosità (vedi Eb e il Sir), testimoniata soprattutto dalle tante parabole sull’attesa nei vangeli. Della sinfonia che è stata eseguita da Luca ci rimane un motivo: vegliare e pregare in ogni momento, per poter attendere e accogliere la salvezza, il Figlio dell’Uomo che torna per noi.
È facile però addormentarsi. Anzi: l’invito di Gesù a stare svegli non vuole superare la nostra natura: “la vigilanza continua non significa che i discepoli non possono mai dormire; già fisicamente questo è impossibile” (Stock). Sarebbe come chiedere ai pastori che vegliano il gregge all’aperto e di notte di non riposarsi mai. Il problema invece è il non dormire all’arrivo del momento cruciale, è il perdere l’occasione. Che non è solo alla fine del mondo, quando tornerà il Figlio dell’Uomo. In quel giorno, anche se saremo addormentati, il suono della tromba comunque ci desterà (1 Cor 15,52). Che non è solo al momento della nostra morte, quando incontreremo personalmente il Signore.
È l’occasione di ogni giorno: “la ‘fine del mondo’ si realizza per ciascuno quando in Gesù ci si trova alla presenza di Dio” (Radermakers). Due spunti per l’approfondimento: nell’enciclica Ecclesia de Eucaristia si parla proprio di una tensione escatologica suscitata dall’eucaristia. Si possono leggere i numeri 18-20, dove si parla dell’attesa della sua venuta. E poi il documento dei vescovi italiani Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, dove tratta dell’attesa dal n. 29 fino al 31.