La solennità dell’Ascensione di Gesù ci rende più presente, vorrei dire più attuale, la visione del “cielo”. Mi torna in mente la domanda che mi fece un monaco di un monastero copto nel deserto egiziano. Mi chiese: gli uomini di oggi pensano a sufficienza alla loro dimora permanente? E continuò dicendo che per la maggior parte dei cristiani la vita nel cielo non è altro che un’appendice, un supplemento alla vita terrena ch’è invece ritenuta la vera vita stabile e permanente.
La vita del cielo è considerata una specie di post-scriptum, l’appendice di un libro di cui la vita terrena è, appunto, il vero testo. La verità – concludeva il monaco – è esattamente il contrario. La vita sulla terra è solo la prefazione di quel libro il cui testo è la vita del cielo. Questa riflessione del monaco mi pare molto saggia. Tuttavia potrebbe suonare un po’ semplicistico dire che si pensa troppo a questa vita terrena e poco a quella celeste. Il problema è forse un altro e riguarda il modo in cui pensiamo alla vita sulla terra. E c’è da dire che purtroppo è un modo depauperato, depotenziato e perciò sbagliato. Tutti pensiamo che la vita terrena è una cosa e quella del cielo totalmente un’altra. In realtà, la scrittura ci suggerisce una continuità della vita, sebbene ci sarà una cesura alla fine dei tempi. Ed è in questa prospettiva che nel Credo si parla di ‘vita eterna’ e non semplicemente di vita futura o dell’aldilà.
È come dire che questa vita già da ora deve essere impastata di eternità, e lo è sia nel bene che nel male. Il paradiso e l’inferno iniziamo a costruirli da questa terra e su questa nostra terra e in questo nostro tempo. In tal senso, la nostra vita terrena sarebbe trasformata di molto se avessimo lo sguardo rivolto verso il futuro, verso l’alto, verso il cielo. L’Ascensione viene a mostrarci qual è il futuro che Dio ha riservato ai suoi figli. E il futuro è quello raggiunto da Gesù. Ecco perché abbiamo bisogno di “vedere” già questo cielo sebbene in speculum et in enigmate come dice l’apostolo Paolo, per poter vivere bene già su questa terra. Il mistero dell’Ascensione, appena accennato dal Vangelo di Marco, è narrato con maggiore ampiezza dagli Atti degli Apostoli. Gesù, scrive Luca, al termine dei suoi giorni, dopo aver parlato ai discepoli, “fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo”.
Fu un’esperienza straordinaria per quel piccolo gruppo di discepoli. Possiamo immaginare il misto di stupore e di tristezza per la separazione; tanto che rimasero a guardare il cielo. Mentre erano fissi in questa posizione, “ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù… tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. Normalmente si interpreta questo testo come una sorta di dolce ma fermo rimprovero ai discepoli perché non si fermino a guardare le nubi del cielo, ma ritornino con il loro sguardo e soprattutto con il loro impegno nell’orizzonte della vita di tutti i giorni.
Del resto non è stato Gesù stesso ad esortare gli apostoli, proprio un momento prima di lasciarli, dicendo: “andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15-20)? Tutt’altro quindi che restare a guardare il cielo. Ma c’è anche una verità nel tenere gli occhi fissi al cielo. Non che i cristiani debbano formare un gruppo di esoterici fermi a contemplare dottrine astratte, magari per evadere la complessa e talora durissima vita quotidiana. Tenere gli occhi fissi verso il cielo vuol dire tenere ben ferma la meta ove dobbiamo condurre noi stessi e il mondo, le nostre comunità e l’intera storia umana.
Scriveva il profeta Isaia: “Nessun orecchio ha mai sentito e nessun occhio ha mai visto… ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (Is 64, 3). L’ignoranza del cielo che Dio ci ha rivelato rende senza senso e quindi amara e triste, violenta e crudele, la vita sulla terra. L’apostolo Paolo sembra insistere perché i credenti guardino oltre il presente: “La nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo” (Fil 3,20). Egli per primo inaugura il nuovo futuro di Dio entrandovi con tutto il suo corpo, con la sua carne e la sua vita, che sono carne e vita di questo nostro mondo. Da quel giorno, il cielo inizia a popolarsi della terra o, con il linguaggio dell’Apocalisse, iniziano i nuovi cieli e la nuova terra. Il Signore li inaugura e li apre perché tutti possano prendervi parte. Già la sua madre, Maria, lo ha raggiunto, assunta anch’essa con il suo corpo.
L’Ascensione è il mistero della Pasqua visto nel suo compimento, scorto dalla fine della storia. L’Ascensione non è solo l’ingresso di un giusto nel regno di Dio, ma la gloriosa intronizzazione del Figlio “seduto alla destra” del Padre. Questa raffigurazione, presa dal linguaggio biblico esprime simbolicamente il potere di governo e di giudizio sulla storia umana del Cristo risorto: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” dice Gesù ai discepoli dopo la Pasqua (Mt 28,18). Non siamo più immersi in una storia senza orientamento, vittime del caso o degli astri o di forze oscure e incontrollabili. E fanno tristezza coloro che scrutano i cieli (penso alla folla di scrutatori degli oroscopi…) in cerca di segni di protezione per fuggire la paura e l’insicurezza della vita. Il Signore asceso è lui stesso il nostro cielo e la nostra sicurezza.
Egli ci attrae verso il futuro che Lui ha già raggiunto in pienezza. E ai discepoli di ogni tempo conferisce il potere di dirigere la storia e il creato verso questa meta: essi possono scacciare i demoni e parlare la lingua nuova dell’amore; possono neutralizzare i serpenti tentatori e vincere le insidie velenose della vita; possono guarire i malati e confortare chiunque ha bisogno di consolazione. Questa forza sostiene e guida i discepoli sino ai confini della terra e verso il futuro della storia. Il Vangelo di Marco conclude: “partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro”. Così sia per ciascuno di noi e per tutte le nostre comunità cristiane.