La liturgia di questa domenica continua la lettura del capitolo sesto del Vangelo di Giovanni. Siamo nella sinagoga di Cafarnao ove Gesù sta tenendo il suo noto discorso dopo che aveva moltiplicato i pani. La gente visto il miracolo, aveva cercato di farlo re. Gesù fuggì, prima sul monte e poi a Cafàrnao. La gente non vedendolo più si mise a cercarlo; salirono sulle barche e si diressero all’altra sponda del lago. Quel giovane profeta oltre a sfamarli, li aveva affascinati con la sua parola e non volevano perdere il contatto con lui. Ed in effetti, dopo averlo cercato, lo ritrovano ‘al di là del mare’. Da buon pastore non andava dietro le folle non correva dietro i loro desideri, le loro mode, le loro richieste, come spesso accade oggi a tanti che in tal modo sono più guidati che guide.
Gesù restava per tutti il maestro che va avanti, che ammaestra e, se necessario, che rimprovera. Per questo non smise di parlare, di esortare e di correggere coloro che aveva di fronte. Con chiarezza si rivolse alla folla: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato pane sino a saziarvi”. In effetti, tutti erano andati alla ricerca di Gesù perché si erano saziati del pane da lui miracolosamente moltiplicato. Senza alcun dubbio avevano interesse per il suo potere miracoloso, ma forse non per il suo cuore. Mancava insomma l’affetto, non c’era l’amore per quel Maestro. Ebbene, questa cecità affettiva andava rimossa e guarita. Ed era quanto Gesù si apprestava a fare. Con affetto e con pazienza – come accade sempre quando si ascolta con continuità la Scrittura – disse loro: “Datevi da fare non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura per la vita eterna”.
Era un’esortazione a superare l’angusto e pressante orizzonte della sazietà; Gesù voleva che andassero oltre la soddisfazione immediata dei propri bisogni. C’è, infatti, un ordine di vita più alto, una dimensione dell’esistenza che va oltre le preoccupazioni del mangiare, del vestire, del fare carriera, dell’essere tranquilli a qualsiasi prezzo. Tutte queste cose non ci sfamano, anzi lasciano dentro di noi una inquietudine, una spinta a cercare nuovi bisogni e nuove soddisfazioni, in una corsa senza fine. È l’esperienza che ovviamente facciamo noi del mondo ricco, non certo quelli che fanno fatica a trovare persino il poco per la sussistenza. Comunque, a tutti Gesù dice che c’è un cibo che non perisce. E per averlo è necessario darsi da fare in ogni modo.
Gesù sembrerebbe dire alla folla degli ascoltatori: “Se avete preso le barche e siete venuti al di qua del mare, magari affrontando anche i pericoli della tempesta per trovare il pane del corpo quanto più dovete adoperarvi per trovare il cibo ché non perisce?”. Ma essi non capirono queste parole e pensarono che chiedesse loro l’osservanza di altri precetti per poter ottenere la continuazione di quel miracolo: “Cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. In verità Gesù esigeva da loro una sola opera: credere il lui. In un’altra parte del Vangelo Gesù afferma: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”. Non si tratta né di un precetto né di un’ulteriore prescrizione ma solo di lasciarsi coinvolgere personalmente e affettivamente da Gesù e dal suo Vangelo. Tutto ciò non è spontaneo e naturale. Per certi versi la fede è un vero e proprio “lavoro”. Essa è senza dubbio un dono di Dio, ma nello stesso tempo è anche affidata alle nostre mani, e come ogni lavoro richiede decisione, continuità, applicazione, fatica, scelte e totale abbandono.
La gente che ascolta Gesù sembra intuire qualcosa e chiede ancora: “Ma tu che segno fai, perché noi possiamo vedere e credere in te?” . Non gli era bastato il miracolo del giorno prima. Ed era ovvio; quello bastava per soddisfare i bisogni del corpo, quando però si tratta del coinvolgimento della vita si chiedono ben altre garanzie. Ma questo tipo di garanzie, possibili sul piano dei contratti commerciali, non lo sono su quello dell’amore. L’amore, e con esso la fede, è sempre anche un rischio, sebbene i “segni” compiuti da Gesù sono numerosi e incredibili. La gente era, ed è, talmente presa dalla propria sazietà materiale e, comunque, a tal punto egocentrica da non riuscire a vedere oltre se stessi e quindi non lascia le sponde della propria tranquilla sicurezza per affidarsi all’amore del Signore che sempre porta in mare aperto. Il Signore, tuttavia non manca di donare il pane per irrobustirci nel cammino della fede e dell’amore. Gesù lo spiega agli ascoltatori dicendo loro che il vero pane è quello che viene dal cielo, anzi è “colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”.
La folla capisce solo a metà l’affermazione di Gesù che sposta l’attenzione dal pane alla sua persona, e ribatte: “Dacci sempre di questo pane!”. E una richiesta spontanea e, a prima vista, anche bella dovrebbe essere la domanda di ognuno di noi. Ma essa deve partire dal cuore, più che dallo stomaco. E Gesù, come avviene nei momenti decisivi, risponde con la chiarezza di chi vuole davvero salvare e dice: “Io sono il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame”. A questo punto si può comprendere con evidenza il senso pieno della manna nel deserto e il senso stesso di quel pane moltiplicato per i cinquemila.
C’è un pane – ed è Gesù stesso – messo a disposizione di tutti; viene da Dio, ma non è lontano da noi, tutti lo possiamo gratuitamente ricevere. Per noi, uomini e donne del ricco mondo dell’Occidente, non c’è spazio per ‘mormorare’ contro Mosé, come fecero gli ebrei nel deserto, e neppure siamo nella condizione di quei cinquemila rimasti senza pane perché presi dall’ascolto di Gesù. Forse dobbiamo sì “mormorare”, ma contro noi stessi contro i nostri ritardi e le nostre lentezze, contro la nostra durezza nel comprendere perché, pur avendo lo stomaco pieno e il “pane della vita” a portata di mano, non sappiamo accoglierlo e gustarlo. Gesù, in questo discorso di Cafàrnao, cerca in ogni modo di farci comprendere la necessità di nutrirci del “pane della vita”. Nutriamoci di questo pane e, come dice l’apostolo Paolo, “rinnoveremo il nostro spirito e rivestiremo l’uomo nuovo”.