Domenica scorsa Gesù usava l’immagine del Buon Pastore per descrivere il suo rapporto di amore con noi, indicati come sue pecore conosciute, guidate, salvate. Oggi ci propone l’immagine della vite per illustrare la stretta comunione intima che ci unisce a lui, morto e risorto per noi. Ancora una volta fa appello all’esperienza dei suoi ascoltatori, cercando immagini significative per rendere chiaro il suo insegnamento. La vite era l’albero da frutto di gran lunga più conosciuto e coltivato in Palestina, terra di vigne e di vino al tempo di Gesù. La vite coltivata sulle colline assolate della Galilea era un alberello basso che estendeva i suoi rami in orizzontale da un ceppo all’altro, sostenuti da pietre o da pali di legno. I rami si incrociavano tra loro fino a coprire quasi per intero il terreno.
Spesso la vite era appoggiata ad un fico, altro albero molto diffuso e apprezzato per i suoi frutti. I grappoli d’uva ricevevano calore per la maturazione sia direttamente dal sole sia dalla terra infuocata che lo riverberava. Il Salmo 80 così descrive, in maniera paradossale, la vite simbolo del popolo di Dio: “Hai divelto una vite dall’Egitto, per trapiantarla hai espulso i popoli. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici e ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne, i suoi rami i più alti cedri. Ha esteso i suoi tralci fino al mare e arrivavano al fiume i suoi germogli” (Sl 80,9-12). La vigna era circondata da un muricciolo di pietre che la difendeva dagli animali; su un lato veniva costruita una torre di guardia e di rifugio per evitare furti in tempo di vendemmia. Ogni anno, il contadino ripuliva il terreno dalle pietre e dagli sterpi; a primavera potava le sue viti e all’inizio dell’estate le mondava dai tralci infruttuosi. Sono le due operazioni del Padre agricoltore descritte da Gesù. Sotto la penna dei profeti, la vite era il simbolo del popolo ebraico. A ricordarlo a tutti, la sua immagine era posta sulla facciata del santuario di Gerusalemme.
Osea proclamava: “Rigogliosa vite era Israele, che dava frutto abbondante” (10,1): Gli faceva eco Geremia: “Io [Dio] ti avevo piantato come vigna scelta, tutta di vitigni genuini” (2,21). Peccato che quella simbolica vite si fosse imbastardita e avesse prodotto frutti guasti e acerbi. Eppure era segno dell’amorevole cura di Dio, che si era cambiata in delusione cocente. Perciò Isaia così la cantava: “Il mio diletto aveva una vigna sopra un fertile colle; l’aveva vangata e sgombrata dai sassi; vi aveva piantato scelte viti, vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino. Aspettò che facesse uva e invece produsse uva selvatica. Toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo, demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto” (Is 5,1-6).
Gesù applica a sé l’immagine con una vera e propria autodefinizione: “Io sono la vera vite”. Vuole indicare che Dio ha sostituito l’antica vite d’Israele con l’invio di suo Figlio, trapiantato dal cielo sulla terra. Una nuova vite genuina di grande qualità (vera) che non deluderà Dio, agricoltore che se ne prende cura amorosa. Non si tratta più di una vigna, dove ci sono molti alberi uno accanto all’altro, ma di un’unica vite che produce molti rami che ricevono linfa dall’unico ceppo. Gesù aveva detto: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Con la Pasqua (l’elevazione di Gesù in croce e in cielo) tutti siamo stati riuniti a formare con lui un solo albero: lui il ceppo e noi i rami che vivono della sua stessa vita, che sale a noi da lui. L’immagine veicola due concetti base: la cura assidua e amorosa di Dio (l’agricoltore) per noi e l’unione vitale nostra con Cristo. Vuol dire che noi siano cosa preziosa e cara a Dio Padre, come lo è Gesù stesso.
Egli ci cura con attenzione e attende, come il contadino, il frutto della vendemmia, il vino nuovo, per allietare la sua festa finale con noi. La sua cura inizia a primavera con la potatura, che è operazione dolorosa per i rami, che sembrano piangere, ma necessaria per produrre frutto. Le vicende dolorose della nostra vita umana provengono dall’amore misterioso di Dio che ci purifica in vista del raccolto finale. Tali sono state quelle dolorosissime di Gesù, il ceppo che ci sostiene e ci dà vita. Noi formiamo con Gesù risorto un unico organismo vivente, dove circola la vita divina che ci fa figli nel Figlio. Dipendiamo in tutto e per tutto da lui, tanto che senza di lui secchiamo come sterpi, buoni soltanto a far fuoco. Il legno della vita non può essere utilizzato per nessun oggetto artigianale, perché fragile e inconsistente. I sarmenti della vigna sono adoperati solo come combustibile per il fuoco. Finché quei rami sono attaccati alla vite, sono preziosi in vista del frutto dolce e abbondante che producono; quando sono staccati, non servono a nulla.
Ecco perché Gesù proclama: “Rimanete in me e io rimango in voi. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”. Il verbo “rimanere” è molto caro all’evangelista Giovanni, perché indica la perseveranza nella fede. Il cammino di fede inizia infatti con ‘l’ascolto’ della Parola, nel quale Dio opera una specie di attrazione magnetica spirituale; continua con il “venire” che è cammino spirituale progressivo; termina con il “rimanere” che consente di restare uniti a Cristo come rami alla vite, e avrà il suo culmine nella permanenza definitiva nella casa del Padre. La perseveranza ci consente di tenerci attaccati alla vita di Gesù, come il filo elettrico ad una presa di corrente. Se l’attacco tiene, la corrente passa, la lampadina si accende, il motore gira. Se la spina si stacca, tutto piomba nel buio e il motore si spegne. Nessuno di noi è personalmente autosufficiente, dipendiamo in tutto e per tutto da Dio, attraverso Gesù che ci tiene uniti a lui e ci dà vita.
Questo ci consente di essere in presa diretta con il Padre per qualsiasi richiesta: “Chiedete quello che volete e vi sarà dato”. Certo, Dio non si impegna ad ascoltare qualsiasi nostro capriccio e qualunque richiesta che ci danneggerebbe. La condizione posta da Gesù è chiara: dobbiamo pregare come discepoli suoi, traducendo in preghiera il suo insegnamento, e dobbiamo rimanere in lui, pregando attraverso lui, che filtra solo le richieste veramente utili. C’è da chiedere: “Signore, insegnaci a pregare!”.