Quello di oggi è il secondo racconto di guarigione operata da Gesù in terra pagana. Nei pressi di Tiro, una donna siro-fenicia aveva insistito fino allo stordimento, perché Gesù le guarisse la figlia gravemente malata (7,24-30). Ottenne ciò che chiedeva, nonostante quel miracolo in terra pagana non rientrasse nel programma messianico fissato da Dio. Ma come si fa a dire di no a chi ha estremo bisogno e insiste tanto? È sempre possibile fare un’eccezione per amore. Il Padre divino lo sa e lo ha messo in conto. Ma ormai la porta ai pagani è aperta ed è impossibile richiuderla. Il miracolo di oggi non è più un’eccezione, sta diventando una regola. Marco lo vede come l’inizio della missione cristiana tra i pagani, che era divenuta prassi del suo tempo, dopo che Gesù risorto aveva annullato ogni confine, inviando i suoi apostoli in tutto il mondo (16,15).
Era una bella notizia da cantare, perciò il racconto, nel testo greco, ha l’andatura ritmico-poetica di un canto diviso in strofe. Accade più di una volta, nei Vangeli, di imbattersi in testi redatti in maniera poetica, come se l’autore avesse voluto trascrivere brani di cantastorie cristiani. Ciò è indice dell’origine orale dei testi, redatti in modo da facilitare la memoria, ma è anche indizio che certe pagine non venivano solo annunciate, ma cantate e recitate in maniera scenica, tanto era l’entusiasmo dei primi credenti. Sarebbe bello ritrovare quel metodo e quel fervore nelle nostre catechesi. Certamente sarebbe più efficace di certe nostre prediche noiose. Il brano di oggi servirebbe a cantare la nostra riconoscenza a Gesù per aver aperto le nostre orecchie alla fede e la nostra lingua alla lode.
Siamo nel territorio della Decapoli (le Dieci città), la regione pagana che si estendeva a oriente del lago di Galilea circa da Damasco ad Amman. Oggi siamo al centro di quel vasto territorio, forse all’altezza del lago, nella regione dei Geraseni, dove Gesù aveva liberato l’indemoniato posseduto da una legione di demoni (5,1-20). Quello narrato è uno dei miracoli che descrivono un processo scenico di guarigione, in cui Gesù compie gesti simbolici significativi per gli uomini del suo tempo. Egli si adatta alla cultura popolare dei suoi contemporanei, parla il loro linguaggio comprensibile. Gli hanno presentato un sordo che necessariamente è anche muto. L’evangelista con precisione non dice che è muto (àlalos), ma che “fa difficoltà a parlare” (moghìlalos), come ogni sordomuto, che sembra avere la lingua impastata. Egli inizia con l’appartarsi insieme al malato, come a voler dare carattere di intimità all’azione. Gesù non ama gesti spettacolari che donano pubblicità ai suoi miracoli; sarebbe fra l’altro una operazione pericolosa, perché susciterebbe l’entusiasmo popolare che non induce a pensare, ma solo a manifestare.
Le tentazioni, che egli ha vinto all’inizio della sua missione, lo escludono categoricamente. La sua missione è quella umile e modesta del Servo del Signore, non quella del taumaturgo che cerca successo. Ciò non impedisce alla folla di assistere alla scena, sia pure da lontano. Gesù infatti compie 5 gesti significativi: pone le dita nelle orecchie del sordo, gli bagna la lingua con un po’ di saliva, solleva gli occhi al cielo, sospira intensamente, pronuncia la parola guaritrice. Quel dito accostato all’orecchio è il contatto vivificante di Dio, la comunicazione delicata del suo Spirito. Viene in mente l’atto con cui Dio trasmette potentemente la vita al primo uomo, come l’ha rappresentato Michelangelo nella Cappella Sistina. Dalla punta di quel dito scatta la scintilla della vita che sana. Gesù protende in seguito il dito a bagnare leggermente la lingua del muto con la sua saliva. Quest’ultima è ritenuta dalla gente il primo e più immediato mezzo terapeutico, anche perché è strettamente collegata al soffio e alla parola del taumaturgo.
Lo sguardo rivolto al cielo è il gesto della preghiera che Gesù rivolge al Padre in segno di gratitudine per il potere che gli dona (6,41). Il sospiro profondo che emette è come la raccolta di forze per agire o l’espressione della sua commozione sincera per l’uomo che ha davanti. Teniamo presente che Gesù ha a che fare qui con un sordomuto e l’unico linguaggio compreso da costui è quello dei gesti; con essi Gesù gli parla. Il contatto delle orecchie e della lingua gli fa capire dove sta indirizzando la sua potenza curativa; con gli occhi rivolti al cielo, gli dice da dove viene la sua guarigione; con il sospiro, gli esprime tutta la sua pena e la sua partecipazione umana. Poi pronuncia nella sua lingua materna, l’aramaico, la parola che guarisce: “Effeta”, cioè “Apriti!”. È un comando imperioso che intima all’uomo chiuso dal suo male di aprirsi al mondo esterno, dal quale finora si sentiva escluso, di uscire dall’isolamento al quale la sua sordità lo condannava. È una parola potente, capace di inserirlo pienamente nel consesso degli uomini normali, quelli che ascoltano e parlano. Essa rompe la doppia barriera di incomunicabilità: quella delle orecchie e quella della lingua.
L’evangelista ci fa costatare che dopo quel comando “subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente”. Il profeta Isaia, nella prima lettura di oggi, descriveva in anticipo questo miracolo come il segno della salvezza portata dal Messia: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi, e si schiuderanno gli orecchi dei sordi, griderà di gioia la bocca del muto” (Is 35,5s). Noi viviamo in questo nuovo tempo di Dio. Il giorno del nostro battesimo è stato celebrato su di noi quel rito finale dell’“Effeta”, cioè l’apertura dei nostri sensi all’ascolto e alla professione di fede, con queste parole: “Il Signore, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre”.
Ad assistere a certe nostre assemblee festive viene da dubitare che questa rito battesimale abbia raggiunto sempre il suo effetto e sia stato efficace, almeno per alcuni cristiani che non sembrano ascoltare, e soprattutto non sanno parlare. In genere, se si è muti nella preghiera e nella lode, significa che si è sordi all’ascolto della Parola; il mutismo è frutto della sordità, non viceversa. Il significato storico simbolico del miracolo appena illustrato ci invita a riflettere sul nostro stato di credenti, che devono professare la loro fede con parole e azioni. Dovrà ripassare Gesù a guarire questi nostri fratelli sordomuti nella fede? Sarebbe una bella sorpresa.