È morto mons. Salvatore Boccaccio, vescovo di Frosinone. Io di lui, dei cinque anni trascorsi insieme al Seminario romano maggiore, conservavo un unico ricordo, sbiadito, banale. Salvatore Boccaccio era uno sul quale potevi sempre contare quando bisognava raggiungere il numero minimo per poter disputare la quotidiana partita a calcio. Niente altro. Ero io, in genere, che, grazie alla mia già annosa e inconcussa devozione alla dea Eupalla, raccoglievo le adesioni: ‘Lei ci sta, vero?, a sostituire con una partita di pallone il tempo della quotidiana passeggiata per Roma!?’. (‘Lei’, ci davamo del lei, tra ventenni!). ‘Sì, ci sto’. Salvatore Boccaccio era uno di quelli che non diceva mai di no; anche se aveva nessuna inclinazione al pallone; anche se aveva un fisico da sollevatore di pesi; anche se durante la partita (giocavamo’ con la veste talare!) sudava a ruscelli, qualche buon litro di sudore ogni volta. Ma non diceva mai di no. Su lui si poteva sempre contare. Come su D’Aristotele, che da prete fu poi protagonista di una vicenda tragica ed esaltante. Come su Ennio Antonelli che, imbattibile nel tennis da tavolo, messo su un campo di calcio ci faceva la figura della gallina ovaiola. Era per permettere ai calciofili impenitenti (come lo scrivente) di perseverare nel loro vizio: su loro ci potevi sempre contare.’ Quell’attenzione al prossimo che portava Salvatore a non negarsi mai ai miei inviti, quell’attenzione al prossimo che allora aveva solo piccoli sbocchi, una volta diventato vescovo di Frosinone mons. Boccaccio l’ha rilanciata alla grande. Avvenire ha sottolineato con forza che il culmine della sua azione evangelizzatrice (EVANGELIZZATRICE, n.b.!) fu la pastorale della carità: ha fortemente, tenacemente voluto che in ognuna della cinque zone pastorali della sua diocesi ci fosse una casa di accoglienza per gli ultimi, per quelli che nessuno vuole. Pensavo a lui mentre leggevo la risposta che don Elio ha dato nell’ultimo numero de La Voce a quel lettore che, in una sua lettera al nostro settimanale, proponeva di utilizzare al servizio degli immigrati la tante case delle quali dispongono le nostre diocesi. Un risposta perfetta, quella di don Elio. Perfetta e prudente. Prudentissima. A me però, che in queste cose soffro di una specie di strabismo congenito, l’esortazione del Signore ad essere ‘candidi come colombe e prudenti come serpenti’ rimane incomprensibile. E mi vien fatto di chiederGli: ‘Signore, ma tu credi veramente che fosse necessaria quella seconda parte della tua esortazione?’. Già. Io non sono nessuno, ma non riesco a cancellare l’impressione che nella Chiesa la prudenza dell’anaconda soverchi sempre il candore della colomba. Fino a cancellarlo.
Colombe e anaconda
AUTORE:
Don Angelo M. Fanucci