Nella sua Prima lettera san Pietro usa immagini, simboli per esprimere il suo pensiero. È questo lo stile biblico: la verità rivelata nella sacra Scrittura non è espressa di solito con idee astratte, con ragionamenti, ma con immagini, parabole. Con quale risultato? L’immagine, il simbolo può apparire, a prima vista, un modo di esprimere più povero di una riflessione teologica. Ma è vero anche il contrario: rifiutando di darci definizioni, la Bibbia ci apre la strada verso l’incontro con il Mistero. Ed è una strada tutta da percorrere, con la guida dello Spirito del Signore. In questo senso il linguaggio biblico è più stimolante e dinamico di qualsiasi altro. Gesù stesso l’ha usato. E non solo ha usato immagini e parabole, per esprimere i misteri di Dio, ma ha soprattutto compiuto alcune azioni particolarmente significative. In Gesù, affermava sant’Agostino, “le azioni parlano” (acta sunt verba). Un esempio, riguardante il nostro argomento, possiamo trovarlo nel Vangelo di Marco (1,14-20), che abbiamo meditato nella liturgia eucaristica di poche domeniche fa. Gesù inizia la sua vita pubblica con due gesti: la predicazione del “vangelo di Dio” e la chiamata dei primi quattro apostoli: Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni. Marco lega strettamente insieme i due episodi, certamente anche a scopo catechetico. E infatti questo legame ha un profondo significato. Vi è come condensata tutta la sostanza del “regno di Dio”, la cui realizzazione terrena è la Chiesa. Non basta la Parola per costruire la Chiesa, non basta la comunità dei discepoli per costruire la Chiesa. Le due realtà debbono essere strettamente unite. Per questo si afferma giustamente la “sacramentalità” della Chiesa. La parola deve unirsi al segno visibile per celebrare il sacramento. “Insieme all’acqua è la parola che purifica”, diceva sant’Agostino parlando del battesimo. “Se togli la parola, che cos’è l’acqua se non acqua? All’elemento si unisce la parola, si forma il sacramento che è, a sua volta, come una parola visibile”. Definizione stupenda del sacramento, che è anche una stupenda definizione della Chiesa: essa è “come una parola visibile”! Gesù ha l’ansia dell’evangelizzazione: Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo”. Gesù poteva certamente predicare e insegnare da solo, senza l’aiuto di discepoli, i quali in realtà gli hanno preso molto tempo per istruirli e poi, in fondo, con scarso profitto. Da solo avrebbe potuto far meglio e più in fretta. Ma, in tal caso, sarebbe stato l’insegnamento di un rabbino, di un esegeta, di un teologo o di un filosofo. La sua scelta è stata radicalmente diversa. Del “regno di Dio” ha voluto non solo darci la dottrina, ha voluto presentarcene anche un’immagine vivente e concreta, anche se molto scadente. Era certamente meno perfetta della dottrina da lui insegnata con i suoi discorsi. Ha scelto la strada più difficile per rivelare e realizzare in terra il regno di Dio, cioè la sua Chiesa. Avremmo noi l’ardire di usare un modo diverso? Questo interrogativo non sta qui fuori luogo. A quale pastore d’anime, a quale dirigente di comunità cristiane non è venuta la tentazione di fare a meno di un gruppo di collaboratori? Di porre fra le cose inutili, e troppo faticose, una scuola di formazione per laici impegnati? Di chiudersi per far tutto da sé, predicando, catechizzando, senza preoccuparsi di avere un “segno visibile” della Chiesa? Oltre la fatica, a far difficoltà ci sono spesso le delusioni, gli insuccessi, che scoraggiano il pastore o il responsabile di un gruppo di cristiani impegnati. “Ma se essi non scoraggiarono Gesù, perché loro dovrebbero sentirsene scoraggiati?” (sant’Agostino, Commento al vangelo di Giovanni 80,3).
Chiesa: Parola visibile
Parola di Vescovo
AUTORE:
Giovanni Benedetti