La tentazione del potere. Così potremmo riassumere il tema del brano evangelico di questa ventinovesima domenica. Marco riferisce un dialogo tra Gesù e i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. Siamo ancora sulla strada verso Gerusalemme e, per la terza volta, Gesù confida ai discepoli il destino di morte che lo aspetta al termine del cammino. I due discepoli, per nulla toccati dalle tragiche parole del maestro si fanno avanti per chiedergli i primi posti accanto a lui quando instaurerà il regno. Dopo la confessione di Pietro a Cesarea e la discussione su chi tra loro fosse il primo, probabilmente è cresciuto un clima di rivalità tra i discepoli; e questo forse spiega l’ambizione dei due fratelli nel rivendicare i primi posti.
I due chiedono a Gesù: “Maestro, vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. La verità è che sono davvero distanti dal pensiero e dalle preoccupazioni di Gesù, e non riescono a sintonizzarsi con lui. Gesù, rivolto ai due, chiede: “Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. E cerca di spiegarglielo usando due simboli il calice e il battesimo, ben noti a chi come loro frequentavano le Sante Scritture. Ambedue i simboli sono interpretati da Gesù in rapporto alla sua morte. Il calice è il segno dell’ira di Dio, come scrive Isaia: “Levati su, Gerusalemme che dalla mano del Signore tracannasti il calice della sua ira, la coppa che ti ha stordita” (Is 51,17); e Geremia dice: “Prendi dalla mia mano questa coppa colma del vino dell’ira, e fanne bere a tutti i popoli ai quali io ti mando” (Ger 25, 15).
Per Gesù è una metafora con la quale indica che egli prende su di sé il giudizio di Dio per il male compiuto nel mondo, anche a costo della morte. La stessa cosa vale per il simbolo del battesimo: “Tutte le tue onde e i tuoi marosi si frangono sopra di me” (Sl 42, 8). Le due immagini mostrano che il cammino di Gesù non è una folgorante e oleata carriera verso il potere. Semmai è il cammino dell’assunzione su di sé del male degli uomini, come disse il Battista: “Ecco l’agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo”. I due discepoli probabilmente neppure ascoltano le parole del maestro e tanto meno ne comprendono il senso. Ai due apostoli, come spesso anche a noi, non importa comprendere la Parola evangelica; quel che interessa è l’assicurazione del posto. E con sciocca semplificazione, i due rispondono: “Lo possiamo!”.
È la stessa superficiale faciloneria con cui risponderanno a Gesù al termine dell’ultima cena, mentre si avviano con lui verso l’orto degli Ulivi (Mt 26, 35). Basta solo qualche ora, ed eccoli, assieme agli altri, abbandonare di corsa il Maestro per paura e lasciarlo nelle mani dei servi dei sommi sacerdoti. La richiesta dei due figli di Zebedeo era ovvio che scatenasse l’invidia e la gelosia degli altri discepoli (“si sdegnarono con Giacomo e Giovanni”, nota l’evangelista). Gesù allora li chiamò ancora una volta tutti attorno a sé per una nuova lezione evangelica. Ogni volta che i discepoli non ascoltano le parole di Gesù e si lasciano guidare dai loro ragionamenti, si discostano dalla via evangelica e provocano liti e dissidi al loro stesso interno.
È istintiva nei discepoli come del resto in ogni persona, la tendenza a fare da maestri a se stessi, a divenire “adulti”, ossia indipendenti e autosufficienti, sino al punto da fare a meno di tutti, persino di Gesù. È lo stile di questo mondo, che tutti conosciamo molto bene poiché lo pratichiamo con frequenza. Per il Vangelo è vero l’esatto contrario: il discepolo resta sempre alla scuola del maestro, rimane sempre uno che ascolta le parole evangeliche. Il discepolo di Gesù, anche se dovesse occupare posti di responsabilità, sia nella Chiesa che nella vita civile, resta sempre figlio del Signore, ossia discepolo che sta ai piedi di Gesù. Ecco perché Gesù raduna nuovamente i Dodici attorno a sé e li ammaestra: “Sapete che coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così”.
L’istinto del potere – sembra dire Gesù – è ben radicato nel cuore degli uomini, anche in quello di chi spergiura di non esserne sfiorato. Nessuno, neppure all’interno della comunità cristiana, è immune da tale tentazione. Non importa che si tratti del “grande” o del “piccolo” potere tutti ne subiamo il fascino. È normale fare considerazioni severe su coloro che hanno il potere politico, economico culturale; e talora è anche necessario farlo. Forse però è più facile fare l’esame di coscienza agli altri che a se stessi, in genere uomini e donne dal “piccolo potere”. Non dovremmo tutti chiederci quanto spesso usiamo in modo egoistico e arrogante quella piccola fetta di potere che ci siamo ritagliati in famiglia, o a scuola o in ufficio, o dietro uno sportello, o per la strada o nelle istituzioni ecclesiali, o comunque altrove? La scarsa riflessione in questo campo è spesso fonte di amarezze, di lotte, di invidie, di opposizioni, di crudeltà.
Ai suoi discepoli Gesù continua a dire: “Tra voi non è così” (forse sarebbe più corretto dire: “Non sia così”). Non si tratta di una crociata contro il potere, per favorire un facile umilismo che può anche essere solo indifferenza. Gesù ha avuto potere (“insegnava come uno che ha autorità”, scrive Matteo (7, 29), e lo ha concesso anche ai discepoli (“Diede loro potere sugli spiriti immondi” si legge in Mc 6, 7). Il problema è di quale potere si parla, e comunque di come lo si esercita. È il potere dell’amore. Gesù lo spiega non solo con le parole quando afferma: “Chi vuole essere grande tra voi si farà vostro servitore”, ma con la sua stessa vita. Dice di se stesso: “Non sono venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti”. Così deve essere per ogni suo discepolo.