di Pier Giorgio Lignani
Fino a qualche giorno fa, parecchi Italiani (me compreso) avrebbero avuto qualche difficoltà a trovare la Thailandia sulla carta geografica. Ma tutti abbiamo seguito l’avventura di dodici ragazzini in gita di piacere, rimasti chiusi nel fondo di una grotta per colpa dell’incredibile leggerezza del loro istruttore. Per tirarli fuori vivi, diecine (forse centinaia) di esperti soccorritori si sono prodigati giorno e notte per circa due settimane, con profusione di mezzi tecnologicamente avanzati e ovviamente costosi. Uno dei soccorritori ci ha rimesso la vita. Per tutto questo tempo la cronaca del difficile salvataggio ha riempito telegiornali, radiogiornali, giornali stampati e internet, segno che la gente comune si appassionava alla vicenda. Una bella prova, si direbbe, di sensibilità umana e di solidarietà. Ma negli stessi giorni, e anche nelle settimane e nei mesi precedenti, molto più vicino a noi, nelle acque di quello che i Romani chiamavano mare nostrum, un gran numero di altri ragazzini, anche più piccoli, non in gita di piacere ma in fuga da condizioni di vita subumane, rischiavano di morire miseramente annegati, e non pochi di loro ci sono effettivamente morti. E per questi non c’è stata emozione collettiva, ma da parte della maggioranza degli italiani (o almeno dalla maggioranza in senso politico) una distratta e infastidita indifferenza; quando non il disprezzo, espresso anche ad alta voce, nei confronti di chi invece manifestasse preoccupazione e solidarietà. Una delle tante drammatiche contraddizioni del mondo moderno. Un mondo che non ha più confini, quanto alle comunicazioni, alla circolazione dei pensieri e delle immagini, agli idoli dello spettacolo e dello sport; ma che i confini immediatamente li riscopre, e li proclama sacri e inviolabili, quando i disperati bussano alla porta. Così abbiamo trovato giusto e doveroso che in Thailandia, per salvare alcune vite, si facesse di tutto perché “tutto è dovuto per salvare una vita umana in pericolo”; ma quando tocca a noi fare la nostra parte, diciamo – magari con un Rosario in mano – che “la pacchia deve finire”.