Brano, quello della trasfigurazione, tra i più difficili da leggere e da collocare all’interno del percorso storico della vita di Gesù, è ricco di suggestioni intertestuali: quanto accade, come la teofania al momento del battesimo, o la moltiplicazione dei pani e il cammino sulle acque, è raccontato con ricche allusioni ad avvenimenti e racconti dell’Antico Testamento. Vediamone l’inizio. Otto giorni dopo. L’annotazione temporale “otto giorni dopo” (purtroppo omessa dal lezionario) collega il racconto con quanto è appena accaduto: Gesù ha terminato il suo primo annuncio della passione. Ma non dobbiamo dimenticare una frase importante che segue tale profezia, e che forse è la vera “introduzione” al brano: “In verità vi dico, vi sono alcuni qui presenti, che non moriranno prima di aver visto il regno di Dio” (9,27). “Aver visto”: la chiave che usiamo per aprire il nostro brano è quella del rapporto tra vedere e ascoltare. È bello stare lì.
Anziché spiegare quanto accaduto, partiamo dalla reazione di Pietro, che potremmo leggere a prima vista come un’ingenuità di un povero pescatore. Luca e Marco commentano che Pietro non sapeva quel che diceva. Matteo invece non ha alcuna aggiunta redazionale, e riporta solo le sue parole: “Maestro, è bello per noi stare qui”. A mio avviso non dovremmo interpretare l’espressione come il dispiacere per un qualcosa destinato a finire, una specie di rimpianto per un compiacimento estatico ma effimero, mentre poi bisogna scendere giù a valle dove incombe la ferialità dell’esistenza e la vita vera. Nulla del ritornello del canto “Il nostro posto è là in mezzo a loro…”, anche perché tali espressioni non sono registrate nei vangeli. Delle parole di Pietro coglierei invece la ricchezza teologica. Dov’è il “bello”, il “buono” (kalos, v. 33), se non in Dio, in Gesù? Stare con Gesù è la cosa bella, vedere la sua gloria è l’esperienza che non si può mai più dimenticare, proprio come l’antica omelia della Seconda lettera fa dire a Pietro: “Questa voce noi l’udimmo rivolta dal cielo, quando stavamo con lui sul monte santo” (2 Pt 1,18). Ma Pietro non sa quello che dice perché non è ancora in grado di comprendere fino in fondo quanto aveva appena sentito dal Maestro, e cioè della sua morte e risurrezione. Vorrebbe vedere sempre quel volto raggiante, ma non potrà invece chiudere gli occhi davanti al suo Santo Volto sofferente. Anzi, a causa di quello scandalo, anche Pietro fuggirà come gli altri.
Anche se sembra che a Pietro sia servito a poco, “la Trasfigurazione di Gesù aveva come fine di consolidare la fede degli Apostoli in vista della passione: la salita sull’alto monte prepara la salita al Calvario” (Catechismo della Chiesa cattolica, 568).Gesù doveva mostrare la sua gloria (Luca solo insiste per due volte con la parola gloria), perché su quel monte ha rivelato il suo destino ultimo e quello di ognuno di noi, l’esodo che anche noi dobbiamo prima o poi portare a compimento (qui la traduzione Cei andrebbe emendata: “exodos“, è scritto nel testo orig. di Lc 9,31).
L’annuncio della passione e morte di Gesù – e anche nostra – non è mai completo se ad esso non è associato quello della gloria, della risurrezione. La nostra sorte infatti si compirà quando anche il nostro corpo, la nostra vita, saranno trasfigurate e anche noi – come già Pietro, Giovanni e Giacomo – vedremo il Risorto “così come egli è”, non solo nella sua forma umana, ma nella sua più completa realtà. La trasformazione di cui parla il parallelo Mt 17,1 (nel greco: “e si trasformò davanti a loro”) è lo svelamento della personalità profonda di Gesù, quella dell’eletto, del Figlio unigenito. Ed è anche profezia della nostra futura trasformazione. Ascoltare, non vedere – la voce, e non la visione. Ciò che ha consolato i discepoli sul monte è stato il poter vedere cose meravigliose.
Per diverse volte in questo episodio ricorre il verbo “vedere” (al passivo, visti = apparsi: 9,31; all’attivo: 9,31.36; all’imperativo, al v. 30: “ed ecco”, in gr.). Ma – terminata la visione – ciò che resta, nella nube, è solo una voce. Ci dice della situazione in cui noi ora siamo: quella dei credenti, beati anche se non possono più vedere il Signore (cfr. Gv 20,29: “beati quelli che pur non avendo visto crederanno”). Se ora si vede ancora il Signore, è solo in un modo “confuso”, dove la sua presenza appare, ma non chiaramente, come per i discepoli di Emmaus. Può essere (intra)visto nei poveri, nei bambini (ricordiamo proprio il messaggio di Giovanni Paolo II per questa Quaresima, sui bambini malati di Aids), nel prossimo. Nei sacramenti, dove – come scrive san Leone Magno – “è passato ciò che era allora visibile nel nostro Salvatore” (Sermones 74,2). Non lo possiamo vedere: i credenti invece lo devono ascoltare, nella sua Parola, che – grazie alla Chiesa – ancora ci viene trasmessa: “ascoltiamola”.